Data: 12.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Due o tre considerazioni "filosofiche" sull'Art. 18

“Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo” (Deuteronomio, 5 – 21)

DUE O TRE CONSIDERAZIONI
“FILOSOFICHE” SULL’ART. 18



Si può dire qualcosa di “filosofico” sul tormentone dell’art. 18? Io credo di sì o, almeno, ci provo, anche sulla scorta degli input che ci ha offerto la prof. Giovanna Dossena nell’ultimo appuntamento del “Caffè filosofico”.

Ho la netta sensazione che il “mondo” stia cambiando a ritmi vertiginosi, ma che le “idee” di certe forze politiche e sindacali siano rimaste ferme, immobili.

Sento subito la tua obiezione: perché mai i valori dovrebbero rincorrere il mondo reale e tanto più quello economico?

In linea di principio non posso che concordare con te: la dignità umana (di ogni singolo uomo, di ogni singolo lavoratore) vale immensamente di più del profitto del datore di lavoro.

Ma scaviamo.

Tre scenari

Scenario numero uno. Sono un ex operaio appassionato del mio lavoro, tanto appassionato che, con una buona dose di temerarietà, mi sono messo in proprio. Mi sono rimboccato le maniche, ho investito energie, tempo, denaro, intraprendenza, fiuto degli affari e ce l’ho fatta: oggi ho alle mie dipendenze una cinquantina di lavoratori. Ho vissuto – non lo posso negare – un periodo di rendita, ma ora, con un mercato ormai globale, con la concorrenza sempre più spietata dei paesi emergenti, la mia impresa è perennemente esposta a rischi di sopravvivenza. Da qui una lotta estenuante tesa ad accrescere la produttività e quindi a ridurre i costi e i prezzi. Sono io che investo i miei capitali, io che mi indebito presso il sistema creditizio, io che rischio e, di conseguenza, che cosa posso fare di fronte a un operaio che non mi rende? Non ho alternativa: sciogliere il contratto. Non mi interessa se è iscritto a un sindacato a un altro, non mi interessa se in fabbrica fa propaganda politica. L’unica cosa che mi interessa è il suo rendimento. Del resto, il patto tra me e lui è stato chiaro: la “giusta mercede”, quella stabilita a livello contrattuale, in cambio di un valore aggiunto. È questo l’unico parametro. Perché dovrei licenziare un lavoratore che fa il suo dovere e sulla cui formazione ho investito una ingente quantità di soldi? Un lavoratore del genere, anzi, me lo tengo stretto, anche di fronte alle lusinghe che può avere da aziende concorrenti. Nessuno mi può legare le mani: l’impresa è mia e le regole sono quelle del mercato. Nessuno mi può impedire di licenziare a casa mia: l’impresa è… un’impresa, non un ente di beneficenza.

Scenario numero due. Sono un pensionato francese e ho investito una quota del mio reddito in un Fondo da cui mi aspetto solo un obiettivo: un rendimento superiore a quello che mi possono offrire i titoli di Stato. I gestori del Fondo lo sanno ed è per questo che investono e disinvestono a seconda della convenienza. E investono, a parità di condizioni, preferibilmente laddove hanno piena libertà di disfarsi della manodopera con un basso tasso di redditività.

Scenario numero tre. Sono l’amministratore delegato di una multinazionale e, in tale veste, non posso che rispondere alle aspettative degli azionisti della società. Per questo sono molto oculato negli investimenti. Non sono necessariamente attratto dai paesi emergenti. Posso trovare più conveniente investire in aree fortemente industrializzate perché lì posso trovare della manodopera qualificata, infrastrutture all’altezza, mercati interessanti. Ma una cosa è certa: investo dove ho le condizioni più favorevoli, anche la libertà di licenziare.

Grecia docet

Tutto qui: le regole sono sempre le stesse.

Ti sento urlare: non si possono confondere così spudoratamente le carte in tavola e dare al capitalismo selvaggio un “volto umano”; non si possono sacrificare sacrosanti diritti – in primis il diritto al lavoro – sull’altare delle leggi di mercato; non si può spacciare “un modello” feroce qual è la concorrenza a tutti i costi come “il modello”.

Già, il Capitalismo, Marx, il comunismo, il paradiso terrestre. Già, il diritto al lavoro garantito dalle aziende del defunto socialismo reale. Ideologie, miraggi, idoli clamorosamente andati in frantumi per implosione.

La libera concorrenza miete vittime, è indubbio, ma sprigiona anche energie, è un potente stimolo al rinnovamento tecnologico. È grazie alla concorrenza che le imprese italiane negli anni Cinquanta e Sessanta si sono tanto irrobustite da conquistare il mercato di concorrenti esteri temibili. E che cosa vorremmo fare oggi? Impedire ai paesi emergenti di fare altrettanto?

Il mercato non è il Male assoluto. Certo, deve essere regolato e reso trasparente perché esprima il massimo delle sue potenzialità positive e limiti al minimo la sua carica distruttiva1.

E il diritto al lavoro? Non lo si può chiedere a un’azienda privata, tanto più quando questa, a causa della concorrenza, registra un esubero di personale. E non può essere garantito neppure da un’azienda statale: un’azienda, anche se ha come azionista di maggioranza il Tesoro, non può prendersi il lusso di sfuggire alla logica di mercato. Quello che può e deve fare uno Stato è creare le condizioni che rendono appetibili gli investimenti (anche con aliquote fiscali particolarmente favorevoli agli imprenditori come hanno fatto a lungo i governi irlandesi), condizioni che non possono prescindere dalla libertà di assumere e di licenziare.

Un sistema disumano, questo? Non è di sicuro il leibniziano migliore dei mondi possibili, ma qual è l’alternativa? Se non si investe, non si crea ricchezza e se non si crea ricchezza, non si può distribuirla. Tu puoi urlare finché vuoi, puoi maledire nelle piazze i padroni e chi ci governa, puoi sparare a zero contro i burocrati di Bruxelles e, in particolare, contro la politica del rigore di Angela Merkel e i Diktat della Bce, ma che cosa pretendi di raggiungere? Puoi, certo, chiedere e ottenere un mix più equilibrato di rigore e sviluppo, ma non puoi lasciare che i conti pubblici impazziscano. La Grecia, con il suo apparato pubblico ipertrofico e col suo grado di protezione sociale, docet. E così docent tutti quei paesi che negli anni della crescita hanno perso in termini di produttività e hanno rotto in modo irresponsabile gli argini della spesa sociale.

L’“etica della responsabilità”

La tua esigenza è dettata da una forte istanza etica e questo è ammirevole. Tu, giustamente, non vuoi rinunciare a dei diritti così faticosamente conquistati, ma vorresti, anzi, globalizzarli. E fai bene: non possiamo permetterci di tornare indietro. Ma, realisticamente, ti sembra questo un traguardo raggiungibile a breve o a medio termine? Non ti sembra una rassicurante fuga in avanti sognare un governo mondiale quando noi europei in mezzo secolo non siamo riusciti a fissare delle regole comuni?

E poi sei proprio sicuro che la libertà dei datori di lavoro di licenziare sia la lesione di un diritto e uno sfregio alla dignità dell’uomo? Non può essere, addirittura, proprio il contrario? Più barriere ci sono in uscita, meno incentivo hai di dare il meglio di te stesso. Tu hai diritto a non essere discriminato, ma hai anche il dovere di non fare il “lavativo” (non puoi negarlo: in ogni azienda ce ne sono di lavativi!) e hai il dovere di eseguire il lavoro al meglio senza fare danni. È questa l’“etica della responsabilità”. Se entri in questa logica, la tua dignità umana viene potenziata, altro che lesa! Sei sempre libero di pensarla come vuoi, anche di parlare male del tuo datore di lavoro (le condizioni di lavoro si possono sempre migliorare), ma se “rispetti le regole”, se addirittura fai di tutto per accrescere la tua professionalità, il tuo “padrone” non si sognerà mai di licenziarti, ma anzi ti premierà.

Invece che rimanere abbarbicati alle idee di Marx e dei suoi nipotini o farsi cullare da utopie palingenetiche, non sarebbe più fruttuoso imboccare la strada finalizzata a coniugare assunzione di responsabilità (anche collettiva, magari provando a sperimentare, mutatis mutandis, un modello introdotto in Germania dai cristiano-democratici e perfezionato dai social-democratici, la cosiddetta Soziale Marktwirtschaft o “economia sociale di mercato”), alta produttività e consistenti premi di produzione?

Non credi sia arrivato il momento di aprire una stagione nuova, con meno tutele (privilegi di chi lavora) e meno assistenza pubblica2 , caratterizzata da un’esplosione di “soggettività”? L’etica della responsabilità può svolgere la stessa funzione della libera concorrenza: sprigionare energie individuali e collettive inimmaginabili. Non è ciò di cui ha un grande bisogno la stessa società civile? Meno mano pubblica (anche se questa non può mancare a tutela di chi è davvero fragile), più “doveri”, più “individualità”, più “creatività”. No?

Un delirio pasquale, il mio? Non credo. Quello che ho fatto è mettere in discussione non poche categorie culturali che hanno contribuito in modo significativo alla mia formazione. Qualche volta è utile liberarsi dalla propria zavorra.

Forse, chissà, se ci pensi, un po’ di zavorra la puoi trovare anche tu.



Crema, 09/04/2012

Piero Carelli



1 Non stiamo vivendo una crisi che, almeno in qualche misura, ha avuto l’avvio dalla bolla speculativa che ha colpito gli Usa nel 2008?

2 Non è umiliante ricevere per anni la cassa integrazione straordinaria e sussidi di mobilità senza nulla in cambio?

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