Il genere letterario dell’invettiva morale si presta per sua natura ad equivoci. Ecco perché ritengo doveroso, dopo il confronto vivace del 9 gennaio al Caffè filosofico, chiarire, seppure in modo schematico, il mio personale “punto di vista”.
Non ho dogmi, “assoluti”, ma questo non mi esime dal “credere” in valori “forti”.
Nessun valore è più nobile di ogni singolo uomo: è questo è il mio “credo” di base. Si tratta di un valore forte, ma non assoluto: una regola, infatti, ammette sempre delle “eccezioni”.
Il problema (tutt’altro che agevole) è proprio questo: individuare le eccezioni che consentono “moralmente” il sacrificio di una persona.
Nella mia full immersion nel Risorgimento non ne ho trovato neppure una: non certo per la carneficina che si è consumata sotto l’egida di eserciti statuali nell’epica battaglia di Solferino (ben 28.000 caduti, tra morti e feriti, vale a dire “una teorica fila ininterrotta di corpi inerti o sofferenti lunga una cinquantina di chilometri”), ma nemmeno per l’“esiguo” numero di vittime provocate a Parigi per mano di alcuni terroristi.
Si dirà che non sono le singole “cause”, ma i “risultati complessivi” a “giustificare” i “costi umani”. È una logica, questa - la “logica dei risultati” - che mi rifiuto di seguire, come mi rifiuto di seguire la logica dei numeri e credere che alcune migliaia di morti siano, tutto sommato, un prezzo moralmente sostenibile: sono moralmente sostenibili, allora, secondo tale logica, i 650.000 morti – più alcune decine o forse centinaia di migliaia di vittime tra le file dei “nemici” – della Grande guerra per liberare Trento e Trieste?
Per me ogni singolo uomo vale infinitamente di più di qualsiasi pur nobile risultato.
È quando non si riconosce la dignità infinita di ogni singola persona (e quindi in primis il suo “diritto” alla vita) che si scivola nella cultura della morte. Accade quando l’individuo viene subordinato a una “Causa superiore” (lo Stato etico, la Razza, la Storia concepita alla Hegel e alla Marx…) e quindi sacrificato come tale sull’altare di qualche “dio”. Accade, in ultima analisi, ogni volta si pretende di "superare" il liberalismo: da qui il "totalitarismo" fascista, nazista, comunista...
Ecco perché elogio il liberalismo perché è proprio il liberalismo che riconosce i "diritti" di ogni singolo uomo.
Un conto, certo, è lo Stato totalitario e un conto la “nazione”, ma non vi è dubbio che una nazione, nella misura in cui diventa forte, è tentata dall’avventura coloniale. È accaduto alle prime grandi nazioni europee. È accaduto anche all’Italia che sotto il pressing del “nazionalismo” (un'altra dottrina che fa dell’uomo uno “strumento”) e in seguito alla svolta del “nazional-fascismo”, ha seminato una moltitudine di morti: almeno 30.000 tra gli Etiopi e 40.000 tra i ribelli libici. "Le nazioni - ripeto la citazione dello storico Paul Ginsborg (p. 15) - sono brutte bestie. Spesso si sono ben poco distinte per servigi resi all'umanità; in loro nome è stato compiuto ogni tipo di nefandezza".
Quali allora le eccezioni? Un’eccezione, di sicuro, è la legittima difesa. E un’eccezione, senza dubbio, è rappresentata dal caso - un caso da manuale - in cui la morte di un uomo consente di salvarne 100 (è qui che entra in gioco il criterio quantitativo). È il caso, ad esempio, di una dittatura sanguinaria. Pienamente giustificata, quindi, è l’opzione della violenza fatta propria dalla Resistenza, ma non la violenza “gratuita” e “sproporzionata” di cui si sono macchiati tanti partigiani non solo dopo il 25 aprile 1945, ma anche prima. La violenza va considerata solo come extrema ratio. In caso contrario, genera altra violenza e fa scorrere altro fiume di sangue: è la storia che lo dimostra.
Ognuno opera, assumendosi le proprie responsabilità, dentro le categorie culturali e le “passioni” del proprio tempo. Ieri come oggi. Ma è l’oggi che ci interessa di più perché è il presente il tempo delle nostre scelte. È questo il capitolo che prima o poi dovremo scrivere insieme. Chissà, forse scopriremo che anche noi abbiamo le nostre bandiere che grondano sangue, che anche noi, spesso e volentieri, facciamo dell’uomo – che è un “fine” – un “mezzo”.
So bene che i governi non si fondano sui “paternostri”, né sui pii desideri delle anime belle. So bene che la politica ha a che vedere con dei rapporti di forza e che l’economia ha una logica che non ha nulla a che fare con la logica dell’etica. So bene che declinare i valori è tremendamente difficile perché “duri” sono i vincoli che ci legano le mani.
Sono, tuttavia, convinto che siamo sempre noi, pur tra mille condizionamenti, a “fare la storia”, ognuno nel suo ambito. Non salveremo, certamente, il mondo, ma non gli daremmo un volto un po’ più umano se, da “esseri morali”, scegliessimo - rubo ancora la potente immagine di Antonino Caponnetto - di “porre la persona umana al centro dell’universo”?
Un contributo, il mio, alla riflessione sui costi umani delle nostre radici nazionali. Un saggio, di conseguenza, dal taglio etico, ma che non trascura di dare un’idea (grazie all’espediente del dialogo serrato con un interlocutore ideale) della “complessità” di una stagione a dir poco “eroica”.
Non so se io sia riuscito nell’intento, ma il confronto avviato dal Caffè filosofico è già incoraggiante. Un confronto che – chissà! – potrebbe ulteriormente arricchirsi nel Caffè virtuale.
Crema, 14 gennaio 2012
Piero Carelli
Data: 13.06.2013