La storia ha un senso?
No, ma possiamo dargliene uno.
Condensato in un aforisma, ecco una delle conclusioni tratte da un grande liberale – che presumo l’amico Piero Carelli apprezza, in linea generale – e cioè Karl Popper nel suo libro più controverso, La società aperta e i suoi nemici (1945). Scrivo “controverso” per ragioni che gli storici della filosofia di solito riducono a un aspetto tutto sommato secondario - quasi da opposte tifoserie e sentinelle della ipercorrettezza filologica (che è spesso di una noia mortale) - e cioè se l’attacco al divino Platone contenuto in quell’opera sia fondato o meno. Questo senza nemmeno entrare nel merito del vero obiettivo che l’autore si poneva, e cioè difendere le ragioni della libertà in un’epoca in cui era minacciata dalla peggiore barbarie mai vista, e degli innumerevoli altri contributi là contenuti in pagine densissime. Qualcuno potrà trovare eccessivo scomodare Popper per commentare un’invettiva morale contro certi aspetti del nostro Risorgimento. Tuttavia, nel leggere il libro di Piero, e il contributo chiarificatore inviato in seguito per il dibattito virtuale (dei quali condivido pressoché ogni riga), ritrovo molte delle idee espresse in quella sottovalutata opera da un pensatore che a mio parere è perfino più interessante come politologo che come epistemologo, tanto da farmi quasi sospettare un’ispirazione diretta, tanto forte è l’analogia di pensiero. Peraltro molti parlano di “società aperta” ma credo che relativamente pochi abbiano letto quel libro, e fra quelli che l’hanno letto c’è stato parecchio fraintendimento. Non penso che i rimandi siano intenzionali, ma per me resta comunque un grandissimo pregio, ritenendo l’austriaco il più grande filosofo vissuto dopo Kant, esempio assoluto di rigore argomentativo, chiarezza e forza morale nel difendere proprio quel liberalismo che Piero sostiene (come troppi altri filosofastri contemporanei molto più esaltati non hanno invece fatto, per loro eterno disonore). Quali sarebbero dunque questi paralleli ideali? E cosa vogliono ricordarci, tutte le volte che rivisitiamo stagioni storiche decisive od osserviamo realtà politiche che comprimono la vita e la libertà degli individui? Piero li ha di fatto già delineati, ma vorrei aggiungere qualche considerazione.
Un primo parallelo, ovvio e introduttivo, riguarda proprio l’esame dei cosiddetti “grandi uomini che fanno la storia” con le loro gesta, messi in primo piano da Piero nel suo libro. Mostri sacri, di cui abbondano agiografie e storie edulcorate anche nelle scuole, onnipresenti nelle vie e piazze d’Italia. A quelli si aggiunge, allargando la visuale, l’altra categoria dei “grandi uomini” che forgiano le idee del loro tempo, influenzando pesantemente anche quelle del tempo futuro e quindi la vita di quelli che vivono dopo, i quali pagano le conseguenze. Convinto anche io come Piero che i secondi in effetti siano perfino più importanti dei primi, ebbene, anche il filosofo di Vienna mio prediletto cerca di smorzare gli entusiasmi - per usare un eufemismo - pur riconoscendo tutte le contingenze storiche e sociali del caso:
Se vogliamo che la nostra civiltà sopravviva, dobbiamo smetterla con l’abitudine della deferenza verso i grandi uomini. I grandi uomini possono fare grandi errori.
Se l’immediato bersaglio polemico riguarda, come è noto, la triade dei “falsi profeti” Platone, Hegel e Marx, è chiaro che l’intento qui è analogo a quello di Piero: osserviamo oggi, con la nostra sensibilità, aspetti inaccettabili nel pensiero e nell’azione degli uomini di ieri. Peraltro due dei tre sopra citati sono esplicitamente messi in causa da Piero, e chiamati nello stesso modo per ragioni pressoché identiche a quelle che fanno dire a Popper che Hegel è un vero e proprio pervertitore del fondamento morale del proprio tempo, colui che in età contemporanea getta le basi per l’affossamento del valore dell’individuo e della sua intangibilità per Ragion di Stato, della sua sacrificabilità nelle maglie ineluttabili della Storia, schiacciato e annullato dalle Sue “astuzie” che guidano verso una meta inevitabile, come poi (pseudo)argomenterà Marx riprendendo la stessa matrice speculativa. Il tutto sciorinato in un gergo scandaloso che laddove è intelligibile è banale, e dove non lo è serve solo a mascherare il vuoto pneumatico di sostanza. Tutti noi, voglio sperare, non possiamo più credere minimamente a follie di questo genere, non tanto e non solo perché sono ormai falsificate dalla storia stessa, ma soprattutto perché sono semplicemente rivoltanti dal punto di vista etico. E qui non si sta forse parlando di un “grande uomo”, un “filosofo” potentissimo, che ha forgiato lo “spirito” del suo tempo proiettando nel futuro un’ombra che poi si è rivelata funesta, a sua volta adoratore di “grandi uomini” che in realtà erano grandi criminali? Vogliamo restare a tutti i costi in un atteggiamento intellettuale giustificazionista, ed evitare di trarre almeno la conclusione minimale che oggi, perlomeno, si dovrebbe studiare Hegel (e altri) soprattutto per capire macroscopici errori che dovremmo evitare? La stessa cosa, penso, propone di fare Piero, ed è lo stesso approccio che si dovrebbe seguire con qualunque figura storica o intellettuale, perché scoprire gli errori è molto più fecondo, spesso, che esaltare dubbi guadagni positivi (altro lascito di Popper). Non è nemmeno il caso di dilungarsi sulla sconfinata influenza marxista, con i suoi paradisi in terra che in realtà sono l’inferno, da raggiungere inevitabilmente al prezzo di milioni di vittime, individui che non contano nulla. E riguardo Platone, mi limito a fare una semplice considerazione, evitando di impelagarmi in polemiche ormai francamente stantie: alzi la mano chi sarebbe disposto a vivere in una realtà fondata sugli assunti politici e sociali delineati nella Repubblica e nelle Leggi. Domanda che non si può porre per manifesto anacronismo? Forse, ma quegli assunti sono derivati di peso da premesse filosofiche del tutto assimilabili a quelle che valgono per gli altri “profeti” già menzionati, per i quali le realtà collettive e organiche hanno infinita più consistenza degli individui: e questo ha implicazioni concrete, eccome. E non voglio nemmeno entrare nelle interminabili dispute su come si deve leggere Platone: per me Platone intendeva comunicare esattamente quello che ha scritto, che è sufficientemente chiaro. Superficiale? Semplicistico? Ermeneuticamente scorretto? Non credo. Sono in ottima anche se non abbondante compagnia.
Quanto sopra porta a un corollario immediato: Popper chiama “futurismo morale” quello che giustifica il massivo sacrificio umano di oggi per raggiungere una meta futura, supposta inevitabile e scientificamente fondata quando non è altro che utopia sanguinaria. L’Unità d’Italia non era forse per qualcuno una meta di questo genere, supportata in certi casi da un credo discutibile e fanatico? Poco importa che poi l’Unità d’Italia si sia raggiunta davvero, o che la possiamo considerare definitiva, o che l’inferno totalitario comunista sia ben altro – è l’impalcatura ideologica a essere qua e là molto simile, e questo basta. Anche l’idea di giudicare il “grande uomo” dai risultati della storia è una pessima idea secondo Popper: il “tribunale” della storia non ha nessuna legittimità di per sé, e i “risultati” non giustificano nulla, sia perché la storia non ha nessun corso preordinato (quello che Popper intende per storicismo), sia perché è l’uomo libero a farla, e niente altro (la Provvidenza divina, per chi ci crede, è tutt’altra cosa e corre su tutt’altro binario, quindi non c’entra niente con la presente dissertazione).
Nazionalismo: gran parte del secondo volume de La società aperta ha al centro questa nefanda malattia, vera e propria gabbia tribale che si nasconde perfino in miti ai quali tutti sembrano ancora credere senza riserve, come la cosiddetta “autodeterminazione dei popoli”. Se un “popolo” si “autodeterminasse” nell’eleggere un tiranno, parleremmo forse di democrazia? Non avremmo diritto morale all’ingerenza? Quale “autodeterminazione” sussiste nell’Unione Europea? E se esistesse in qualche forma, sarebbe quella a legittimarla? E poi, qualcuno mi spiega cosa è un “popolo”? Liberalismo: perfettamente convinto che sia, politicamente parlando, il male minore; e altrettanto convinto che una delle ragioni per cui è guardato con sospetto è richiamata da Piero e ampiamente spiegata da Popper: essendo fondato su una matrice individualistica, viene confuso soprattutto dai marxisti (e postmarxisti, che sono ancora marxisti) per egoismo. Popper traccia un evidente parallelo: i collettivisti sarebbero altruisti e solidali, mentre gli individualisti sarebbero dei gretti egoisti, ignorando che i primi sostengono (magari inconsapevolmente) la matrice di qualunque totalitarismo, mentre se vogliamo che la libertà abbia almeno una possibilità di esprimersi dobbiamo porre al centro l’individuo, senza pretendere di emendarne i vizi. Così, il singolo può anche permettersi di essere altruista e solidale, e lo sarà in modo autentico e libero; in tutti gli altri casi, qualche istituzione liberticida vorrà impormi le stesse virtù, per un malinteso senso di irraggiungibile perfezione. C’è qualcosa di più ridicolo, coercitivo, utopistico e fanatico? Quali le eccezioni alla intangibilità dell’individuo? Certamente la legittima difesa, e per estensione la legittima difesa che una società aperta pratica verso un agente totalitario (non necessariamente un’entità nazionale, direi io), come Popper (che è tutto meno che un pacifista “senza se e senza ma”) scrive a chiare lettere:
La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.
Una sola cosa non mi trova d’accordo con Piero, ma è un dettaglio. Non ricordo nessun esempio di resistenza non violenta a un autentico “regime totalitario spietato” che abbia avuto successo. Il totalitarismo è un fenomeno dai tratti abbastanza precisi, quindi la non violenza come forma di resistenza può avere effetto con altre forme di autoritarismo, ma non con quella. Credo sia perfino più verosimile che un regime totalitario si disfi da solo per implosione interna, piuttosto che per iniziative esterne non violente. Forse l’amico Piero vorrà intervenire su questo tema.
Data: 13.06.2013