Data: 13.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Un confronto che arricchisce

Ognuno di noi ha i suoi attrezzi di lavoro, i suoi schemi culturali, le sue stesse idiosincrasie ed è così che legge un testo. E non può essere altrimenti: l’uomo, tanto più se adulto, tanto più se studioso, non è una tabula rasa, per cui ogni lettura è sempre una sorta di “creazione”. Accade anche che si legga il contrario di quello che si trova, ma del tutto in buona fede, semplicemente sulla base delle proprie aspettative.

Ognuno ha il suo “punto di vista” che, in quanto tale, non può che essere parziale. Il confronto, quindi, tra “punti di vista” non può che allargare l’orizzonte di tutti. È quanto è accaduto nel nostro Caffè virtuale. Ringrazio, quindi, gli amici (un antropologo, un filosofo, uno storico e uno psicoanalista) che hanno raccolto la mia provocazione, ognuno secondo il suo stile, la sua sensibilità, la sua passione e che mi hanno stimolato a chiarire ulteriormente il mio “punto di vista”.

Conosco troppo poco la saggezza orientale (una lacuna che sto lentamente colmando) per riconoscermi in uno dei suoi filoni culturali. Le mie radici sono del tutto occidentali. I pensatori che più mi hanno formato sono stati Socrate, Pascal, Locke, Kant, Kierkegaard (tutti, si noti, antimetafisici) e, più di qualsiasi altro, Gesù Cristo (“lo sconfitto per eccellenza” che, tuttavia, “dopo due millenni”, resta ancora un “punto fermo”).

Non mi sono ispirato direttamente a Popper, ma devo confessare che la lettura della sua opera La società aperta e i suoi nemici è stata per me salutare perché mi ha aiutato a riscoprire il liberalismo contro ogni pretesa di “superare” il primato dell’individuo in nome di presunti Valori superiori. Non è un caso che alla fine del mio saggio suggerisca proprio di ritornare, dopo le ubriacature di destra e di sinistra, a quella dottrina che pone proprio al centro i diritti di ogni uomo.

Parlando della resistenza non violenta a proposito di regimi spietati, alludevo alla straordinaria esperienza di Solidarnosc in Polonia e a numerose rivoluzioni cosiddette “colorate” che sono scoppiate nell’ex impero sovietico (si veda Antonino Drago, Le rivoluzioni non violente dell’ultimo secolo, Nuova Cultura, Roma 2010).

Non c’è un modello di uomo originariamente buono. Già Spinoza nel Seicento metteva in guardia da coloro che homines […], non ut sunt, sed, ut eosdem esse vellent, concipiunt (Trattato politico, in Baruch Spinoza, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2010, pp. 1630-1631). L’uomo è come è e, come tale, è abitato dalla violenza. Concordo: la violenza fa “profondamente parte” della sua “struttura”. Gli uomini, tuttavia, grazie alla ragione, hanno la possibilità e la responsabilità di frenare questa violenza. Anche smascherando quelle dottrine aberranti che generano esse stesse violenza. È quanto mi sono sforzato di fare nella mia “fugace passeggiata” risorgimentale.

Non ho “principi primi”. Non ho “idee che si squadernano davanti agli occhi con la forza dell’evidenza”. Ho semplicemente “credenze” in qualche valore. Sono le carte che ho giocato e sono le carte che ho ritenuto opportuno, per rispetto del lettore (in sintonia con una collaudata tradizione tra coloro che trattano di questioni filosofiche), scoprire prima di intraprendere il mio viaggio. Del resto, non sono le credenze il motore di tante opere umane, incluse le opere scritte? Non è stata una credenza forte che ha ispirato il libro citato di Popper?

So bene che “L’immagine oleografica dei padri della patria è stata messa in crisi da tempo, e non solo dalla ‘storiografia revisionista’”: i trenta libri che ho letto, anche se un’inezia nel mare magnum della letteratura sul Risorgimento, mi hanno offerto un quadro sufficiente sullo status della ricerca storica in questione. Non a caso ho scritto in premessa che non mi sarei schierato a fianco dei denigratori degli eroi risorgimentali e non a caso ho preso le distanze da certi studi astiosi di storici o pseudo-storici “meridionalisti”.

Non ho infangato i tanti patrioti che “si sono rivelati disposti a rischiare molto di se stessi, forse anche la necessità di versare sangue”. Ho espresso, al contrario, “ammirazione per gli eroi” e addirittura commozione di fronte a una lettera di un patriota-terrorista. Ho stigmatizzato i mandanti, non le vittime! Isolare dei passi dal contesto può giocare brutti scherzi!

Non ho costruito nel mio monologo un interlocutore mite, debole, giusto per demolirlo meglio. Non ho fatto altro che mettergli in bocca le obiezioni classiche (di cui sono zeppi i manuali di etica) e quelle che ho raccolto da amici del Caffè filosofico, alcune delle quali poi “esplose” nel vivace confronto del 9 gennaio. Tutto qui. Altro che obiezioni edulcorate! Avrei dovuto, forse, scrivere un monologo… a due mani?

Non ho tralasciato per nulla i morti causati dai soldati austriaci durante lo sciopero della fame a Milano: bastava dare un’occhiata a una nota per trovarli (perfino un bambino di quattro anni).

Ho riportato scrupolosamente le “citazioni isolate” degli stessi storici seriosi. Per il mio intento questo bastava (sono gli storici che hanno il compito di scavare, ad esempio, nei cento volumi che raccolgono gli scritti di Mazzini). Non ho trovato, poi, alcuna citazione in contrasto col contesto: se si legge troppo in fretta, magari evitando le note, si rischia di prendere degli abbagli!

Un pamphlet, il mio. Perché mai avrei dovuto rinunciare all’ironia? Forse che perde di valore quel capolavoro che è il Traité sur la tolérance di Voltaire (che consiglio di leggere in francese) - una vera e propria invettiva morale a sfondo storico - perché scritto con l’arma del sarcasmo e privo dei rigorosi “protocolli” degli storici di professione? Non è poi un’ironia sottile che permea un altro capolavoro - un’altra invettiva morale - l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam? Non si può scambiare un genere per un altro!

Un saggio “leggero”, il mio, che ho curato meticolosamente per mesi col preciso scopo di catturare il lettore non addetto ai lavori, di inchiodarlo pagina dopo pagina, anche ricorrendo ad espedienti retorici ad hoc, convinto come sono che un testo, se non è costruito per essere “venduto”, è destinato ad essere abbandonato quanto prima dal lettore medio. Un saggio che ho studiato nei minimi dettagli anche al fine di prevenire (pensavo a un lettore attento) possibili equivoci.

Un “libello”, il mio, ma non ho dubbi di avere svolto un lavoro utile. Quanti libri in circolazione prestano l’attenzione che ho dedicato io ai “costi umani” del Risorgimento (anche nella cerchia dei nostri “nemici”, anche in quella dei nostri “amici”), a certe idee folli del suo profeta, a certi comportamenti cinici di uno dei suoi personaggi più illustri? Quanti storici paludati sono riusciti a sintetizzare in così poche cartelle la “complessità” di quella stagione (anche in aspetti per lo più ignorati da storici cosiddetti “laici”)?

Non mi appassiona più di tanto il Risorgimento. Mi interessano molto di più i nipotini di Mazzini che, pur con un linguaggio rinnovato, continuano a predicare il fondamentalismo mazziniano: se ci guardiamo bene intorno, li troviamo e non solo nel mondo islamico, ma anche in casa nostra. Mi interessano molto di più i nipotini di Cavour per i quali, ancora oggi, la logica dei risultati vale immensamente di più dei mezzi. Ciò che mi interessa è che non si ripetano gli errori di quel periodo “glorioso” e che sopravviva la sua preziosa eredità (magari la versione di Giuseppe Ferrari della laicità dello Stato).

I morti volontari, no, non parlano, ma i morti ammazzati, sì. Parlano, gridano, urlano. E sono una miriade: quasi un milione nel processo di unificazione italiana (compresa l’annessione del Trentino Alto Adige), ben cento milioni nel Novecento in tutto il mondo e almeno alcune centinaia di migliaia agli albori del XXI secolo (si legga Matthew White, Il libro nero dell’umanità, Ponte alle Grazie, Milano 2011). Tutti dovuti alla “opacità della storia”?

Ognuno vive nel suo mondo e coltiva il suo orticello (ed è più che legittimo), ma io sono indignato e con me milioni, miliardi di persone di fronte allo scempio che si fa ancora oggi della dignità dell’uomo, del suo valore che io mi ostino a dire “infinito” (quale confine potrebbe delimitarlo?). Non abbiamo, allora, bisogno di invettive morali in questo momento? Non abbiamo bisogno di nuovi Erasmo da Rotterdam e nuovi Voltaire con i loro j’accuse? Io ritengo di sì. Ci servirebbe - eccome! - un nuovo illuminismo. Un neo-illuminismo maturo, però, senza che nessuno sventoli la bandiera della “Ragione”, senza che nessuno pretenda di vedere dispiegarsi nella storia la mano invisibile della… List der Vernunft di hegeliana memoria: il filosofo altro non è che an Under-Labourer in clearing Ground a little, and removing some of the Rubbish, that lies in the way to knowledge (John Locke, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, Milano 2004, p. 14). Un neo-illuminismo rispettoso della fede: la fede è “apertura al Mistero”, non “possesso” di una Verità da imporre magari con la violenza. Un neo-illuminismo consapevole della “durezza” del tempo presente, ma mai rassegnato al “così va il mondo”, al ricatto del “finanzcapitalismo” (rubo l’espressione a Luciano Gallino). Un neo-illuminismo non distruttivo, ma costruttivo che ponga con forza la “questione morale” e, in primis, la centralità dell’uomo, di ogni uomo.

Mi piace chiudere queste annotazioni con le parole di un gigante del pensiero del Seicento: Men’s Principles, Notions, and Relishes are so different, that it is hard to find a Book which pleases or displeases all Men.

Grazie ancora e che il confronto continui!

Crema, 4 febbraio 2012

Piero Carelli

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