Data: 18.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Che cos'è?



Che cos’è?

La domanda sorge spontanea: quando mai la filosofia ha dimenticato le domande? Quando mai le domande sono state accantonate, a partire dallo stupore originario, dalla curiosità, dal dubbio, dalla meraviglia che sono state additate dagli antichi come progenitori della ricerca?

“Che cos’è?” domanda Socrate, e la domanda all’apparenza più facile è la più insidiosa, quella che esige la risposta più difficile, poiché ha la pretesa di cogliere l’essenza della cosa richiesta. Certo bisogna essere Socrate per fare le domande giuste, quelle che a Provana sembrerebbero ad un tempo bizzarre e intelligenti. “Tu interroghi bene, o Socrate – riconosce Protagora a denti stretti dopo che Socrate l’ha svergognato per una risposta imprecisa – e io rispondo con piacere a chi interroga bene”.

Duemilatrecento anni dopo, anno più anno meno, Giovanni Vailati si interroga sull’arte di interrogare e, dopo avere spiegato come non si devono porre domande agli alunni, chiarisce come, secondo lui, le migliori domande siano quelle che si riferiscono “alla previsione di un fatto determinato”, ossia quelle nelle quali, dopo aver descritto una serie di operazioni, si domanda all’allievo “che cosa egli si aspetterebbe di trovare e di ottenere nel caso che le eseguisse, o come agirebbe ulteriormente se si proponesse di raggiungere in tali circostanze un determinato risultato”. L’ideale, secondo il filosofo cremasco, sarebbe che gli studenti imparassero da sé, e soprattutto imparassero a interrogare i loro insegnanti, anziché farsi interrogare.

Com’è, come non è, quando si parla di domande si finisce con il parlare di scuola, e anche Provana l’ha fatto, forse perché interrogazioni ed esami rimangono lì nell’inconscio pronti a crearci confusione e imbarazzo, a disturbare la nostra tranquilla coscienza di adulti che non devono più rendere conto di quello che sanno e soprattutto di quello che non sanno.

Nell’ambito della docimologia circola un ragionamento che risale a Gaudig, e che dice press’a poco così: le domande scolastiche sono artificiose e avulse dal contesto vivente della comunicazione interumana. Nella vita, infatti, non capita mai di essere interrogati da uno che conosce già la risposta.

Ma questo ragionamento è stato giustamente smascherato come sofisma da chi (Aebli) fa notare che la domanda scolastica non è di tipo informativo, bensì è la sollecitazione che l’insegnante rivolge all’alunno a considerare un problema da altri punti di vista: così va intesa l’interruzione del monologo di uno studente che sta recitando la sua brava lezioncina da parte di un insegnante che lo invita a ristrutturare i termini della questione. Perché sarà anche vero che la scuola non serve a trovare risposte, ma per lo meno ti insegna a formulare le domande (così ricordo di avere imparato al Liceo dal mio eccellente professore di Filosofia).

Eppure secondo il parere di molte persone estranee al mondo scolastico, a scuola non c’è ricerca investigativa, non c’è rispetto per la conoscenza, ci si limita a trasferire informazioni. La scuola è il luogo della noia, di uno stanco e ammuffito sproloquiare e dell’insulsa fatica di ascoltare. Chi propone tecniche eversive per insegnare ad imparare e imparare ad imparare non può fare a meno di presentarsi, in prima istanza, come demolitore delle consuetudini scolastiche, senza rendersi conto che forse sta recitando un copione scontato. Questa denuncia delle carenze della scuola assomiglia a un rito propiziatorio per guadagnarsi il favore del pubblico, una sorta di captatio benevolentiae simile a quella di molti guru della radio e della televisione che, volendo presentare letture tratte dai classici, si affrettano a rassicurare il pubblico: attenzione! È Leopardi, ma non quello che vi hanno propinato a scuola. È Dante, ma non quello che vi hanno costretto a ingurgitare barbosissimi professori austeri ed insensibili, è quello giusto, è quello interessante, nell’interpretazione scenica del bravo attore…

E se invece a me a scuola avessero insegnato ad amare Leopardi e ad apprezzare Dante? Non è possibile: a scuola non c’è passione, né oggi né tanto meno ieri.

Forse sarebbe il caso di considerare la possibilità che quel faticoso tirocinio ci abbia trasmesso qualcosa di più di disgusto e crisi di rigetto. Forse qualche strumento per criticare la scuola ci è stato offerto dalla scuola stessa, come al buon Renato (Cartesio), che si inventa tutte quelle Regole e quel Discorso per sopperire alle mancanze dell’austero e autoritario Collegio gesuitico dove non gli hanno insegnato a distinguere il vero dal falso. Per lo meno, Renato era uno studente modello e non si vantava dei propri insuccessi scolastici, sbandierando come trofei i voti insufficienti, a sicura garanzia di un’intelligenza superiore incompresa: quanti scrittori, quanti professionisti di successo e, ahimé, quanti docenti si presentano con questa discutibile carta d’identità…ed è proprio vero che è il loro orgoglio ferito ad averli trasformati da asini dietro alla lavagna a danarosi manager, politici affermati e magari inventori fortunati.

Condivido pienamente il pensiero di Roberto Provana a proposito delle informazioni come vera merce del nostro secolo: se l’uomo è un animale informivoro (secondo la definizione dello psicologo G. Miller), chi possiede informazioni possiede una preziosa merce. È anche condivisibile l’idea che non la si debba regalare, visto che a chi la possiede è costata cara. Lo scire est posse di baconiana memoria diventa allora scientia est opulentia.

C’è però un inconveniente nel mondo digitalizzato: le informazioni viaggiano più veloci della luce, e circolano gratis, senza brevetti, in quella piazza virtuale dove ogni idea appartiene a chi la legge, e dove ogni utente (figuriamoci lo hacker) può per l’appunto usare, modificare, integrare, amplificare, appropriarsi di pensieri germogliati, con quella calma euforia della scoperta che il corsaro dell’apprendimento ben conosce, nella mente e nel corpo del creativo di turno.

La domanda allora diventa: di chi è il futuro? Del venditore a caro prezzo o dell’incontenibile democraticità della circolazione delle idee?

E a proposito, una domanda per gli psicologi: che cos’è la creatività?

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