Data: 22.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: L’immaginazione al potere

Alcuni pensieri germogliati in me dalle riflessioni di Giorgio Trogu, e in particolare dalla scintillante immagine della conoscenza come lago arricchito da più immissari.

“Non si può applicare il sogno anche alla soluzione dei problemi fondamentali della vita?” chiedeva André Breton nel Manifesto del Surrealismo del 1924. Breton aveva in mente un pensiero “in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione”, una riconsiderazione delle componenti irrazionali o extrarazionali della creatività estetica e del subconscio, un rifiuto della logica a favore di una totale libertà di espressione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale. In questo contesto, anche follia e stati di allucinazione (si ricordi De Chirico e l’arte emicranica di Ubaldo Nicola) venivano rivalutati come modalità conoscitive autorizzate a contribuire al nostro desiderio di felicità.

Più tardi, nel 1946, mentre i popoli delle nazioni democratiche erano alle prese con il problema di cogliere i frutti delle loro vittorie militari, Horkheimer tracciava una sintesi del pensiero della Scuola di Francoforte nell’Eclisse della ragione, dove una “Critica della ragione strumentale” veniva ad affiancarsi alle più complesse formulazioni della Dialettica dell’illuminismo. Tale critica si traduceva nell’invito alla filosofia a diventare memoria e coscienza dell’uomo, restituendogli fiducia in un’epoca di sfacelo della cultura e di predominio della ragione soggettiva o strumentale (si veda l’intervento di Luca Lunardi). “La denuncia di ciò che viene comunemente chiamato ragione è il più grande servigio che la ragione possa rendere all’umanità” concludeva Horkheimer.

L’invito rivolto alla filosofia a non isterilirsi in arido razionalismo non è certo una novità. Tralasciando il riferimento al più noto esprit de finesse, si potrebbe parafrasare Feuerbach, raccomandando ai filosofi di fare in modo di nascere da madre francese e padre tedesco, dal momento che “il cuore, che è il principio femminile, il senso del finito e la sede del materialismo, è francese; la testa, che è il principio maschile e la sede dell’idealismo, è tedesco”. Con cuore rivoluzionario e testa riformista, testa statica e cuore dinamico, si crea una miscela decisamente creativa: per far nascere lo spirito, agitare, non mescolare.

Pur apprezzando tutte queste emende alla presuntuosa ragione, l’intervento di Silvano Allasia ha prodotto in me l’effetto di un’iniezione di sano illuminismo, e sottolineo sano, nel senso che la ragione illuministica è destinata ad essere derisa e sconfitta, o peggio ancora a generare mostri, se viene impropriamente identificata con la Dea Ragione. Se invece più umanamente si accontenta di autocriticarsi ed autolimitarsi, riconoscendo nel contempo la forza delle passioni, allora sì che produce pensiero vicino alla verità. In fin dei conti anche un panlogista come Hegel ammette che “nulla di grande si fa senza passione”.

Ma come chiarisce Secondo Giacobbi, il discorso di Trogu non è irrazionalismo che nega la razionalità: se mai è un invito a far dialogare pensiero cosciente e pensare inconscio. A me è parso quanto mai pertinente il richiamo di Giorgio Trogu al pensare africano illustrato da don Agostino Cantoni: integrare emozione negra e razionalità ellenica, danzare la vita, tendere all’armonia, ancora una volta, fra femminile e maschile, e magari recuperare la capacità di gioco tipica dell’infanzia (si veda l’intervento di Marco Ermentini che opportunamente cita il filosofo virtuale Andrea Bortolon).

Negli anni Settanta del secolo scorso, ci siamo ubriacati di utopie. Abbiamo creduto che il promesso mondo giusto fosse lì, a portata di mano. Che ne è oggi di quella freschezza disinvolta? Apprendo dalla Lettura dei segni dei tempi (2005) dello stesso don Agostino che i giovani fra i 16 e i 25 anni rappresentano oggi una generazione del consenso, lontana anni luce dalle utopie degli anni ’70, ma anche dal mito del privato degli anni ’80. Giovani che aderiscono acriticamente agli orientamenti valoriali degli adulti, e che nel contempo indulgono alla divinizzazione dell’immagine, alla sbobba del grande fratello e delle veline. C’è contraddizione? Non direi: anche molti genitori condividono questo culto dell’apparire, per non parlare di certa sottocultura pseudogiornalistica, affannata ad analizzare tendenze e look di piccole star di provincia.

Quando rileggo Apologia di Socrate, il disgusto di Socrate per la politica, o meglio per un certo tipo di politica opportunistica - che anni fa poteva suonare come positivo invito rivolto ai giovani a distinguere fra i vari uomini politici quelli che si occupano del bene pubblico da quelli che hanno in vista solo il proprio interesse egoistico - mi sembra che tocchi corde oggi troppo sensibili e forse pericolose. Non è il caso di insistere nel denigrare l’impegno politico quando ci rivolgiamo a giovani che già se ne disinteressano completamente. E non tanto per ciò che qualche anno fa si definiva il divario fra paese reale e paese legale, ma per colpa di una malattia ben più grave: un’accidiosa indifferenza che sta causando il ben noto fenomeno della gerontocrazia. Non sarà forse perché abbiamo dimenticato quell’entusiasmo che nasce dalla ricerca della verità e della giustizia? Se così fosse, si potrebbe tentare di rianimarlo proprio utilizzando gli strumenti della tecnologia che certo non sono neutri e anzi potrebbero danneggiare le relazioni interumane, ma potrebbero anche riagganciare l’interesse dei ragazzi, come si è visto all’incontro del primo festival di filosofia con Maurizio Ferraris e la sua ontologia del telefonino. Stiamo attenti a non demonizzare computer e cellulari, come negli anni ’50/’60 hanno fatto alcuni intellettuali rispetto alla televisione, con la disastrosa conseguenza di lasciarla nelle mani dei produttori di spazzatura. Perciò accolgo con grande interesse la proposta di Giacobbi di una serata del “Caffè filosofico” dedicata a “Filosofia e oggetti tecnologici”.

A proposito, l’immaginazione è poi andata al potere?

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