Lo scambio vedo si fa rapido ed anche se non intendevo aggiungere contributi essendo colpevole per aver perso dell’ultima serata parte dell’esposizione mi sento chiamato in causa dai commenti e posizioni già comparse, tanto per cambiare stimolato in particolare dall’ultima dell’amico Piero Carelli.
Mi sembra sia emersa una certa apprensione data dal dubbio che la disquisizione filosofica possa risentire di metodi espositivi mutuati, a mio avviso, anticipo, da altre branche della comunicazione.
Chiarirei prima quindi i ruoli specifici.
Il filosofo, ciò intendendo chiunque pensi speculativamente, lo fa per se, non per altri.
Nel ricercare la propria posizione rispetto alla realtà percepibile o ideare ipotesi coerenti su quanto “ineffabile” nel momento in cui non accetta le verità preconfezionate, si attende un unico premio: l’appagamento sia pur temporaneo, temporaneo perché legato a quello specifico suo momento evolutivo e quindi specifica esigenza di chiarezza, del tutto personale.
Non ha bisogno quindi di argomentare, né di addurre con se stesso argomentazioni artificiose.
Non ha interesse a portare altri su strade diverse, perché non necessita di seguito.
E’ quindi una questione di diversità di ruoli di diversi tipi di trasmissione del pensiero.
Perché allora il dibattito?
Fare pensiero tuttavia in una società dà obbligo di trasmissione.
Obbligo di trasmissione perché?
Ciò perché in quanto animali sociali (pensiero greco classico personalmente condiviso) interdipendendo consideriamo patrimonio comune anche le risorse ideologiche.
L’esperienza in etologia della comunicazione di un nuovo espediente scoperto fra altre specie animali che così “fanno cultura” ne è la dimostrazione.
Certo, si dirà, certe posizioni personali se condivise diventano ideologie con ricadute nel pratico.
In altri termini la realtà percepibile di cui parlavo, è vero, comprende e massimalmente i nostri simili ed i reciproci rapporti, quindi la filosofia stessa è di fatto scienza della regolamentazione di rapporti.
Quindi ciò ci allontanerebbe dalla filosofia pura, almeno vista come qui la intendo, per farci addentrare in altre branche quali l’etica, la politica etc. in cui si trasfonde il pensiero filosofico.
Rispondo che questo modello di “pluripensatore” è contemporaneo al tempo in cui il filosofo era simultaneamente matematico, geometra, musicista, guaritore e tant’altro.
E’ una buona occasione per la ridefinizione del ruolo (scusami Piero, la E accentata non ho ancora imparato a farla).
Comprendo che il mio modello di uomo che pensa è contrario a quelli classici di filosofi storici, che ampiamente sono entrati in ipotesi di tipo sociologico, politico, bioetico, ma penso lì stia l’equivoco.Il filosofo analizza le cause ed ipotizza gli sviluppi di certi comportamenti degli individui e delle comunità, non necessariamente umani ed umane, non dovrebbe far proposte.
Il suo ruolo è di accoglienza e non di azione.
Il suo pensiero al massimo può essere lanciato lontano da se, come un giavellotto, per poi andare a controllare le possibili implicazioni di un’ipotesi e la sua coerenza con l’esperienza vissuta, non per suggerire, ma per ricontrollare l’idea di base nelle ricadute pratiche.
In quanto a coerenza poi il secondo strumento di controllo.
Non avrei troppa paura che abili castelli di ipotesi e deduzioni possano portare chi le formula stesso e magari in primis ne è affascinato su falsi binari.
Il controllo è semplice: il vecchio colpo di rasoio di Guglielmo da Occam.
Il risultato della costruzione logica deve essere coerente perché le cose sono proprio ciò che sembrano, almeno nell’ambito dell’esperienza diretta, con buona pace di tante diatribe bioetiche.
Oh ….., mi scuso, stavo infrangendo la mia stessa regola, imperdonabile!
Data: 22.06.2013