Data: 22.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Karl Marx non è morto

Se Marx fosse stato presente all’ultima serata del Caffé Filosofico, si sarebbe chiesto il motivo della vaga perplessità manifestata da taluni nei confronti della pertinenza degli argomenti trattati con la Filosofia. Forse non gli sarebbe dispiaciuto non essere annoverato tra i filosofi di professione, dal momento che troppo spesso questi ultimi si distinguevano, ai suoi occhi, solo per l’eterea speculazione volta ad interpretare il mondo ma non a cambiarlo. La filosofia, piuttosto, doveva cominciare a porsi altri compiti, molto più concreti. Al di là della battuta, ampi spunti per la riflessione ci sono ed infatti se ne sono trovati. Uno di questi riguarda la relazione tra qualità e verità. Di che natura sarebbe questo rapporto, ammesso che ce ne sia uno? Dal mio punto di vista, non ci sono particolari enigmi: trattasi di una concezione strumentale della verità. Il relatore stesso ha sottolineato che non avrebbe senso mettere in relazione la qualità di un prodotto con una concezione “assoluta” di Verità con la V maiuscola, come se si trattasse di una questione logica o di mera corrispondenza con i fatti (da questo punto di vista, forse, il tema ha una connessione col relativismo). Sia che si tratti di definire la qualità di un prodotto o di un servizio in termini di efficienza misurabile, di funzionalità, piuttosto che di praticità d’uso, o anche focalizzandosi su un concetto appena più generico come quello di customer satisfaction, trattasi di regolare la nozione di qualità sul grado di raggiungimento di un obiettivo pragmatico. Anche nei casi delle imprese che si dedicano agli aspetti vicini alle dimensioni più emotivamente cariche del vivere, come il benessere della persona, la comunicazione, la diminuzione della fatica o altro, ciò non sta a significare che la missione dell’azienda sia quella di rendere felici le persone, nel senso più lato. La banale constatazione che i primari obiettivi (non gli unici) che le aziende devono porsi sono la massimizzazione del profitto e la minimizzazione dei rischi resta per qualcuno un rospo difficile da ingoiare. E questo perché restano apparentemente fuori da questa cornice tutte le implicazioni di carattere etico. Ciò genera, ancora oggi, un vago sospetto se non un’aperta opposizione nei confronti del capitalismo tout court in determinate correnti di pensiero orfane del gigante di Treviri che una battuta famosa vuole ormai morto. Forse ho anticipato un po’ i tempi del mio discorso: facciamo una piccolo passo indietro.

La riflessione più lunga e articolata ascoltata durante l’ultimo dibattito si è mossa entro le direttrici di una attuale critica della forma iperliberista di capitalismo che investe l’economia globalizzata, contro cui si scaglia con violenza non solo verbale una ben nota galassia di movimenti transnazionali che fa di No logo il suo libro sacro. Forse quella critica non voleva avere nulla a che fare con questo, almeno intenzionalmente, e magari non passava nemmeno per la testa di chi parlava. Tuttavia, la denuncia di un certo deficit etico di chi fa impresa nei confronti della società di cui fa parte, fino ad arrivare all’umanità intera, era evidente; e su questa linea, a quanto pare, i criminali peggiori di oggi restano le odiose multinazionali che devastano il pianeta, con la loro massa serva di nuovi alienati. Non ho difficoltà a riconoscere la validità di una certa parte di queste istanze (mai sfociando nell’ideologia, sia chiaro: ho volutamente usato termini un po’ iperbolici per rimarcare la distanza che mantengo da certe posizioni); volendo fare un esempio banale, se fra pochi anni le auto a idrogeno cominciassero ad essere commercializzate, prenderei in seria considerazione l’ipotesi di acquistarne una non appena avessi bisogno di sostituire il mio dinosauro con i pistoni. Ciononostante, il mio giudizio complessivo su ciò che le aziende devono fare, secondo quanto è nella loro ragion d’essere, non sterza. E cercherò di spiegare il perché.

Sembra che, tutto sommato, il libero mercato concorrenziale incentrato sulla proprietà privata resti l’unica soluzione per la produzione materiale di quei beni e servizi che servono all’umanità per sopravvivere. “Unica soluzione” è da intendersi qui come soluzione conosciuta fino ad oggi, quella che non ha rivali in grado di soppiantarla come mezzo più razionale per raggiungere lo scopo – quello della produzione e del commercio su larga scala. La battuta simpaticamente provocatoria fattami da Piero Carelli durante il dibattito – un momento, l’Unione Sovietica… - resta quella che è: una battuta. Proprio le drammatiche condizioni di vita dei lavoratori inglesi avevano colpito talmente Marx da indurlo a pensare ad un’alternativa. Sappiamo tutti quale epilogo quell’alternativa ha visto, divorata dalle insostenibili contraddizioni interne – lasciamo pure perdere gli esiti totalitari che fatalmente produsse, che sono però la conseguenza largamente peggiore – contraddizioni che imprudentemente il marxismo crede di rilevare nel capitalismo. La proprietà privata dei mezzi di produzione, guidata nei suoi scopi dai bisogni del consumatore, resta l’unico modo razionale per organizzare l’economia, nonché per generare prezzi che non siano fittizi (Ludwig von Mises). Detto questo, è ovvio che ciò non sta a significare che tutto del capitalismo è bello e buono, che arrivano le magnifiche sorti e progressive. L’iniziativa privata, per non generare squilibri, deve essere regolata, ed è infatti quello che i moderni paesi capitalisti cercano di fare tramite istituzioni interventiste (nei confronti dell’economia) volte a garantire equa concorrenza. Negli ultimi tempi – ecco il rinvigorirsi dei modesti epigoni di Marx – questo impianto è messo alla prova proprio dal fenomeno della globalizzazione, che estende fortemente il sistema capitalistico oltre le frontiere della singola nazione, dàndo alle aziende un potere che non dovrebbero avere laddove vigono ordinamenti spesso molto diversi rispetto ai luoghi d’origine, scardinando potenzialmente i controlli di cui sopra si diceva. Orrore! La Nike si disinteressa se a cucire le scarpe sono persone sottopagate e senza diritti in paesi poveri e dittatoriali.

Mi pare quasi banale sottolineare, arrivati a questo punto, che non è il capitalismo di per sé ad essere cattivo. Il problema di cui sopra è più politico che economico, dal momento che la Cina – per fare l’esempio paradigmatico – integra nella crescita del suo capitalismo selvaggio il lavoro schiavo a costo zero della popolazione dei laogai, luoghi dove vengono internati a milioni i dissidenti e i presunti alienati mentali. Non posso evitare una punta di polemica richiamando al fatto che i movimenti dell’avanguardia morale anticapitalistica non fanno cenno a barbarie di questo genere.

Le obiezioni anticapitalistiche, in ultima analisi, si riducono sempre a denunce di carattere morale, una parte delle quali assolutamente condivisibili. Il “problema”, qui, è che non esiste un’alternativa credibile al capitalismo medesimo, inteso nelle sue forme migliori e più rispettose. E se elemento essenziale del capitalismo è l’impresa privata che deve fare profitti – e se non fa profitti, chiude e addio anche a quel poco di buono che da essa poteva provenire, alimenti e medicine, non solo carri armati - , è chiaro che l’azienda deve ottimizzarsi per produrre nel modo più razionale ed efficiente possibile, cioè abbattendo i costi, massimizzando il profitto e minimizzando il rischio, cercando di offrire prodotti di qualità e non ciarpame. L’iniziativa del privato, intrapresa per un vantaggio individuale, si riverbera però sulla comunità come una sorta di vantaggio collettivo “inintenzionale”: l’interesse del singolo diventa l’interesse degli altri, dal momento che gli altri – i consumatori con le loro esigenze – sono il faro per il singolo che produce. Su quest’ultimo punto l’obiezione tipica è che spesso, ad opera delle solite multinazionali, lungi dall’essere i veri agenti del cambiamento delle aziende il gusto e le esigenze dei consumatori finiscono per essere imposti in modo più o meno subdolo. Ma questa è l’eccezione, non la regola; ed anche se fosse in parte vero, si tratta al massimo di forte persuasione, non di vera imposizione. Se si depennasse dalla motivazione intrinseca all’iniziativa economica la spinta all’arricchimento personale, verrebbe a mancare la forza propulsiva primaria. Si profilerebbe, come unica soluzione, la proprietà “comune” (eufemismo per significare la proprietà di un’oligarchia al potere) dei mezzi produttivi… una storia già vista che (spero) non si dovrebbe ripetere. Se in un sistema capitalistico i lavoratori devono comunque lottare per vedere riconosciuti i propri diritti, laddove la proprietà privata è considerata un sopruso i lavoratori si riducono ad una massa spersonalizzata in balìa di chi la proprietà detiene. E con quella espropriazione se ne vanno anche i diritti di cui si parlava, delegati totalmente a chi si pretende garante della moralità equidistributiva. Capisco che tutto ciò suona forse cinico e asfittico, ma compito dell’uomo è quello di risolvere i problemi, ivi comprese le storture dell’economia, non quello di sovvertire l’ordine costituito perché ritenuto genericamente immorale sulla base di motivazioni squisitamente (o largamente) ideologiche. Molte grandi aziende, tipicamente del settore della produzione, impiego e distribuzione dell’energia, sono ritenute responsabili del degrado ambientale. Se si osserva questo dato in una prospettiva storicamente ampia non può essere affermato né che il problema venga completamente ignorato, né che non si siano presi provvedimenti; molto è stato fatto, molto resta da fare. Se l’uomo è un essere minimamente razionale, in un futuro non troppo remoto nessuno si sposterà più bruciando idrocarburi, e la produzione non scaricherà più tonnellate di CO2 in atmosfera; queste, semplicemente, sono state le prime soluzioni trovate dall’uomo per soddisfare le necessità energetiche. Verranno soppiantate quando le nuove tecnologie diverranno sufficientemente sicure ed economicamente convenienti su larga scala (né l’una né l’altra cosa, tra l’altro, sono già vere per quanto riguarda una futura economia all’idrogeno, mi pare di poter dire). Talune voci giurano che è già troppo tardi per evitare una catastrofe ambientale globale, ma non presterei troppa fede ai catastrofisti. Altri potranno pensare che dietro esistano chissà quali complotti contro l’interesse dell’umanità architettati dagli sporchi colossi del petrolio; io preferisco evitare scorciatoie intellettuali di questo tipo che sollevano le menti dall’esercizio della ragione per risolvere i problemi (atteggiamenti, questi, che devono molto proprio al volgar-marxismo). In fondo, l’economia del libero mercato non è altro che un modo per dire: io so fare questo; se lo ritieni una buona cosa, puoi averla pagando il suo prezzo, altrimenti puoi rivolgerti ad altri. Tutte le alternative a questo suonano piuttosto come io faccio tutto, la sua qualità non ha incentivi a migliorare, il prezzo è questo, tu non puoi farlo, prendere o lasciare. Non credo che la scelta sia così difficile, anche se nessun vuol far credere che non resta alcun problema da affrontare dopo averla effettuata.

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