Data: 23.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: L’indifferenza

L’indifferenza come fondamentale categoria etica. Essere indifferenti, secondo Stefano Moriggi, significa ammettere opzioni etiche, esistenziali, diverse da parte di persone diverse: l’indifferenza rispetto a ciò che rientra nella sfera del diritto di scelta dell’individuo. Una filosofia relativista come la sua non riconosce valori? Non mi pare affatto. I valori sono lì, con la preziosa scorta del pensiero occidentale, con la sfrontatezza della critica illuministica e laica nei confronti di un potere che si presenta come indiscutibile solo perché può contare sulla forza di un consenso artefatto, che altro non è, nella migliore delle ipotesi, se non assuefazione, rinuncia, distrazione o rassegnazione.

La ricchezza delle citazioni con cui Moriggi ha argomentato le proprie tesi non può passare inosservata. Da Tocqueville a Feyerabend è un piacere ascoltare uno studioso che, pur occupandosi di una disciplina così complessa e a volte ostica per i non addetti ai lavori come l’epistemologia, sa rivolgersi a un pubblico composito riuscendo a farsi capire, catturando l’attenzione e – perché no? – suscitando indignazione. Il suo discorso mi ha ricordato alcune posizioni di Bobbio, in particolare l’ormai antico (1955) dibattito Politica e cultura, dove la libertà individuale è definita un valore universale irrinunciabile, e l’idea di tolleranza è fondata sul principio filosofico dell’incapacità per l’uomo di attingere una verità definitiva e assoluta. A questa idea Bobbio attribuisce il merito di aver dato vita allo stato di diritto, e dunque chi pretende che la verità assoluta sia attingibile (con conseguente legittimazione della repressione violenta dell’errore) attenta a quello stesso stato di diritto. “Sarebbe davvero un gran progresso – ironizza Bobbio – dopo aver combattuto la pretesa delle chiese di essere in possesso dell’unica verità, finire per ammettere che della verità assoluta è in possesso un ente pubblico collettivo senza rivelazioni sovrannaturali e senza interventi divini, come lo stato (o il partito)”. Allora era chiaro di quale stato o partito si parlasse. E oggi? Personalmente sono rimasta spiazzata quando al relatore è stato rivolta la critica di essere comunista. Ma allora non ho capito niente: a me era sembrato liberale, nel significato più alto del termine, in un significato tocquevilliano, per l’appunto. Mi pareva che difendesse il diritto della coscienza individuale, la libertà di scelta contro l’iper-regolamentazione. Di più: la possibilità di tradurre in azione l’astratta libertà di pensiero.


Insomma: l’indifferenza di Moriggi è tutt’altro che indifferente, non solo per la passione etico-politica che il relatore non si preoccupa affatto (per fortuna!) di nascondere, ma perché la definizione di filosofia da cui procede e a cui costantemente si richiama è quella, in ultima analisi, della tradizione greca. La filosofia di Aristotele figlia del dubbio e della meraviglia. La filosofia come un interrogarsi che non ammette risposte assolute, ma che forse esprime un tratto perenne, essenziale, dell’uomo: il bisogno di interrogarsi. Non parlerò di natura umana, per timore di venire istantaneamente ascritta ai sostenitori dell’antirelativismo, ma non è forse vero che le domande della filosofia da Socrate a noi non sono molto cambiate? Non ci credete? Provate a parlare con ragazzi e ragazze di sedici - diciott’anni.

Forse sono un tipo che si accontenta facilmente, ma a me basta questo come fondamento.

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