Data: 24.06.2013

Autore: Mauro De Zan

Oggetto: Sul concetto di tolleranza

Devo dire che quando Cacciari afferma che la tolleranza significa solo la concessione da parte del più forte, del superiore, di una parvenza di libertà nei confronti dell’inferiore che solo grazie alla paterna benevolenza dei potenti può godere così di alcuni diritti, tra cui quelli di espressione delle proprie idee e di professione di fede, provo un certo fastidio perché viene volutamente misconosciuta l’origine storica del concetto e della pratica della tolleranza nell’Europa moderna, o se vogliamo nell’occidente. I monarchi hanno certo scritto nei loro editti che “tolleravano” culti diversi da quello da loro (e dalla maggioranza presunta della popolazione) praticato, ma dietro a queste concessioni formali c’erano lotte spesso sanguinose condotte da minoranze di uomini ben decisi a far valere i loro diritti di libertà di culto: la tolleranza è stata per molti una conquista, non una concessione da parte del potere. In altri casi, ad esempio in Olanda, la pratica della tolleranza tra cattolici, calvinisti, ebrei etc., è stata una scelta obbligata operata per riuscire ad opporsi all’oppressione della potenza spagnola. Gli olandesi hanno detto: mettiamo da parte ciò che ci divide e uniamoci per far la guerra agli spagnoli. Poi, fatti fuori gli spagnoli, hanno visto che la cosa continuava a funzionare, se ne sono affezionati e ci hanno ragionato sopra. Insomma la tolleranza non è nata in un clima pantofolaio-borghese come Cacciari, e prima di lui qualcun altro, vuole farci credere. La tolleranza non è un concetto debole, tutt’altro. E’ nato nel conflitto e non nega affatto il conflitto. Accetta la reciprocità (si è tolleranti solo con coloro che accettano di essere tolleranti con noi) ma non nega la conflittualità dei valori. Certo si è tolleranti quando si è convinti che i propri valori, le proprie idee sono superiori a quelle degli altri; altrimenti che senso avrebbe essere tolleranti e nel contempo esigere che gli altri tollerino le mie idee, i miei valori? Essere tolleranti significa rigettare il “relativismo assoluto” secondo il quale ogni valore è equivalente a qualsiasi altro valore e sostenere al contrario il “relativismo relativo” per il quale non esistono da un lato valori assoluti ma ogni valore ha un senso in relazione agli altri. Detto semplicemente: quando voto sono convinto che i valori di alcuni partiti sono certamente inferiori a quelli del partito da me scelto; ma so anche che magari vent’anni fa sceglievo sulla base di altri valori e forse tra vent’anni sceglierò ancora secondo criteri diversi. Tuttavia la mia scelta attuale è da me ritenuta la migliore. E nonostante ciò accetto che altri votino diversamente da me: se li incontro non mi prendo a cazzotti con loro, né nego loro aiuto o collaborazione nel lavoro o nel divertimento. Persino posso amare una persona che la pensa diversamente da me. E ciò è possibile solo perché e se c’è tolleranza.

Io mi ricordo da ragazzo quando a Milano non si poteva andare in una piazza o in un quartiere senza rischiare di essere sprangati per un vestito o un paio di scarpe. Per qualcuno quegli anni erano favolosi, per me restano belli nel ricordo perché coincisero con gli anni della gioventù, ma non erano affatto belli. Non c’era libertà, non c’era vero confronto o conflitto; c’era solo stupido odio.

Quanto scrive Patrizia circa Marx e la relazione uomo-donna mi ha fatto venire in mente una strana idea: che i filosofoni (come diceva Ceccato quando voleva sottolineare l’inutile prosopopea

dei filosofi di professione) per dire cose semplici spesso fanno dei giri di parole assolutamente inutili (se non che danno una parvenza di sacralità alle loro parole, il che in fondo non è inutile..). In effetti quando Marx scriveva le sue involute frasi hegeliane sul rapporto uomo-donna, J. Stuart Mill scriveva un libretto dove assai chiaramente spiegava i motivi della ingiusta sottomissione delle donne ai propri mariti o padri. Se estendiamo questo paragone troviamo che spesso i filosofi di scuola “continentale”o ermeneutica riescono con grande fatica e sforzi interpretativi disumani (forse divini?) a dire quasi le stesse cose che con disarmante chiarezza dicono da un secolo e mezzo pensatori che possiamo definire liberali o illuministi. Stuart Mill (vedi Saggio sulla Libertà) o Jefferson, o Popper, affermano che le minoranze (religiose, politiche, etniche etc.) sono una risorsa perché sono portatrici di valori diversi dai nostri, perché vedono ciò che noi non vediamo (e viceversa), che i conflitti, persino le rivolte, sono salutari perché permettono di far emergere i disagi che ci sono nella società e insieme nuovi soggetti politici, impedendo la sclerosi del sistema. Il buon Vailati, di fronte agli scioperi e alle manifestazioni tutt’altro che pacifiche di inizio Novecento, scriveva che qualche lampione rotto o qualche treno in ritardo erano il prezzo che si doveva pagare per fare sì che le nuove classi sociali maturassero la loro coscienza politica, e tale processo era necessario e nel contempo utile per la nazione.

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