Cari amici del Caffè filosofico,
l’intervento di Tiziano mi ha fatto ricordare che avevo in mente di scrivere qualcosa sull’ultimo incontro, ma, come spesso capita, avevo lasciato passare i giorni in attesa di mettere insieme qualche cosa.
Mentre don Agostino parlava di come noi (o gli intellettuali africani di formazione europea) vediamo, sentiamo, i rapporti tra la nostra cultura e quella “africana”, pensavo che curiosamente molte delle cose che noi oggi riscontriamo nella cultura nera e avvertiamo come qualcosa di cui abbiamo una strana nostalgia sono più o meno le stesse che i viaggiatori inglesi, tedeschi e scandinavi ritenevano di trovare negli italiani: l’amore per la danza e il canto, la capacità di avvertire e apprezzare la bellezza, la capacità di vivere in modo naturale e di esprimere spontaneamente i propri sentimenti, la solidarietà e la cortesia nell’ospitalità. Insomma una capacità di affrontare la vita in modo aperto senza soffocanti sovrastrutture che impediscono il libero dispiegamento della personalità e della capacità dell’individuo e della comunità di rapportarsi con la natura e l’ambiente che ci circonda, senza insomma avvertire qualcosa di artificiale, la Ragione, che ci impedisce di vivere e godere di questo rapporto. E’ vero che qualcuno tra questi viaggiatori notava che tra noi italiani c’era il vezzo dell’uso un po’ facile del coltello per dirimere controversie o per alleggerire la borsa degli sprovveduti, però anche questo uso della violenza nei rapporti interpersonali era in fondo espressione del nostro temperamento “caldo”, certamente più apprezzabile e meno noioso di quello prevedibilmente razionale e ipocrita dei nordici.
La cosa interessante è che questi viaggiatori parlano dell’Italia del Settecento e dell’Ottocento (per il Sud qualcuno addirittura della prima metà del Novecento). Ma se gli italiani apparivano così “naturali” allora significa che solo di recente siamo diventati “occidentali”. Se così è, allora va chiarito il rapporto tra “razionalità” della filosofia e della scienza occidentale e comportamenti naturali e non-occidentali degli italiani dei secoli scorsi. In effetti il nostro Paese ha dato i natali a molti filosofi occidentali e razionalisti al cento per cento: da Parmenide in poi l’elenco è troppo lungo; basti ricordare per i tempi moderni quel fanatico di Galileo reo di avere imposto una visione meccanicistica dell’universo, o a quegli stolti devoti alla Dea Ragione che furono gli illuministi. Se si accetta il postulato che la nostra cultura, intesa come modo di vivere e percepire la realtà e i rapporti tra gli uomini, è frutto della filosofia occidentale, intesa come insieme delle opere, dei pensieri, dei filosofi nati nei paesi occidentali a partire da Talete in poi, allora siamo di fronte a una bella contraddizione.
L’Italia e la Grecia dovrebbero essere paesi ultrarazionali, platonici, dove tutto trasuda razionalità: mentre, che so, la Finlandia, dove non si ricorda un filosofo nazionale a memoria d’uomo, dovrebbe essere il regno della spontaneità e della scioltezza.
Dobbiamo quindi riflettere su cosa intendiamo quando parliamo di razionalità dell’occidente e quali siano i rapporti tra questa razionalità e la razionalità della filosofia occidentale. E se davvero esiste una filosofia occidentale così monolitica e capace di formare in profondità i popoli che abitano queste tristi contrade. Io insomma credo che quella che intendiamo come la razionalità dell’occidente sia la razionalità dei rapporti di produzione propri del modello industriale che si è imposto dapprima in Inghilterra e quindi in diversi altri paesi europei e non europei (America e Giappone etc.) che per comodità chiamiamo occidentali. E’ insomma la razionalità del taylorismo. Cosa ha a che fare questa razionalità che si occupa di razionalizzare il lavoro e la distribuzione delle merci con le speculazioni dei filosofi occidentali? Tanto, poco, nulla? Sinceramente propendo per il poco: la ragione dei filosofi e degli scienziati è una ragione critica, che cerca continuamente di mettere in crisi le verità scontate, una ragione che in sé non è interessata a scopi immediati, alla realizzazione di qualcosa. Al contrario la razionalità dei processi produttivi ha un fine preciso, tangibile: l’aumento della produzione. Certo non nego che vi siano dei rapporti e soprattutto che tali rapporti nell’ultimo secolo si siano rafforzati: la nascita della tecnoscienza è lì a ricordarci che della scienza “vera” abbiamo forse solo un vago ricordo. Forse quella che chiamiamo scienza oggi non è altro che una branca del sistema produttivo: in effetti dire che in un certo paese ci sono centinaia di migliaia di scienziati urta con la nostra tradizionale immagine di scienziato, che è tutto tranne che quella di un impiegato coscienzioso, attento a rispettare l’orario dell’ufficio.
Credo infine ( che Dio mi perdoni!!) che la razionalità taylorista, basata su chiare differenze dei ruoli, sulle procedure ben predisposte e che vanno sempre meticolosamente rispettate per non mettere a repentaglio il bene comune della produzione, abbia radici ben più profonde nello spirito della tradizione giudaico-cristiana che tende a dare molta importanza alla liturgia, alle distinzioni dei ruoli, a indicare precetti e divieti da seguire scrupolosamente. Una tradizione che per un lungo corso di secoli ha abituato tutta la popolazione a vivere (almeno una parte della loro vita) secondo regole precise indicate da un gruppo di persone che detiene un sapere e un potere particolare. Col taylorismo si è sostituito il sacerdote con l’esperto, il tecnico. E la religione con i “valori” della società industriale. Huxley scrive che nel Mondo nuovo gli anni non si contano più dalla nascita di Cristo, ma dalla nascita del Modello T della Ford, il primo vero prodotto industriale.
Comunque, finché contiamo gli anni secondo il modo tradizionale, auguro a tutti un buon Natale,
Mauro
Data: 24.06.2013