Data: 24.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Nostalgia dell'Africa

Non sono mai stata in Africa. Probabilmente non ci andrò mai. Prima di ascoltare la lezione di don Agostino (in anteprima, nel dicembre 2002, in classe, con tanti ragazzi attenti), per me l’Africa era quella studiata in storia, in geografia, oppure quella del leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese. Una terra tormentata e mitica al tempo stesso. Poi ho scoperto il pensare africano.

E’ facile scadere nel paternalismo quando si parla di pensare africano.

Sicuramente don Agostino l’ha evitato, perché, oltre ad essere uno studioso serio e profondo, è una persona che ama gli esseri umani, e chi ama sinceramente non può trattare con tono paternalistico chi presume essere più piccolo di lui. Se mai, con tono paterno.

Non però tutti gli interventi del 13 dicembre sono stati esenti da paternalismo: c’è il paternalismo di chi dice di avere molto da imparare, e si china dall’alto della propria posizione di privilegio per accordare udienza ai più sfortunati; e c’è il paternalismo di chi, forse con una punta di cinismo, dichiara esplicitamente la propria superiorità di figlio dell’Occidente e della società scientifico-tecnologico-opulenta.

Per carità, non voglio giudicare nessuno, e tanto per chiarire mi ascrivo subito al primo gruppo, nel senso che sono anch’io curiosa e interessata, anch’io voglio ascoltare quello che gli africani hanno da dirci. Solo che questo ascoltare si colloca per me nel flusso della nostalgia.

Sì, direi che la nostalgia è la categoria più appropriata (parlo di categorie, perché non ho vergogna di dichiararmi figlia di quella filosofia greca che è stata più volte citata in un contesto non propriamente elogiativo).

Prima di tutto, nostalgia di una visione del mondo non ancora smagata, nel senso del pensiero aurorale, dell’infanzia dell’individuo e dell’umanità. La magia, l’infanzia non hanno qui alcuna valenza dequalificante; al contrario, sono il simbolo di una condizione di innocenza originaria, di illusione, di contatto con una natura oggi relegata in riserve e zone protette. Nostalgia dei cinque sensi, oggi ridotti a due, nella migliore delle ipotesi: vista e gusto. L’olfatto è svilito e depauperato: chi sa apprezzare ancora il profumo del muschio, dei tigli fioriti, della buccia di mandarino bruciata con il fiammifero? Dell’olfatto, spesso deprezzato o sospinto ai margini dell’esperienza, riabilitato solo nell’eccezionalità e nell’ambito snobistico dell’aromaterapia, la civiltà occidentale sembra aver privato anche i cani. Il tatto non viene educato, se non in alcune scuole dell’infanzia postmontessoriane, che meritoriamente ne promuovono lo sviluppo in forma ludica. Non parliamo dell’udito: chi sa più ascoltare? Si inizia a perseguire la capacità di ascolto in prima elementare, e non si finisce mai di proporsela come obiettivo, per una indicibile refrattarietà degli studenti. Quanti ragazzi sanno distinguere il canto della tortora da quello del colombo? Si sa che la cicala frinisce o il tordo zirla per averlo letto su qualche antologia, ma a quale suono corrispondano quei verbi tanto ricercati chi lo sa dire? Qualche studioso pascoliano va un po’ più in là, e si spinge al chiù dell’assiolo. Ma difficilmente si esce da un percorso letterario, dove i suoni sono nominati, non realmente uditi e riconosciuti. Forse è anche questa la vita vissuta del pensare africano: quella di chi sa interpretare suoni, profumi, sensazioni tattili. Insomma, la forza vitale di Tempels per noi potrebbe nascere da una rieducazione dei cinque sensi.

Tanto per essere spudoratamente nostalgica, citerò Marcuse, che nel lontano 1969, in cerca di "una base biologica per il socialismo", auspicava la nascita di una nuova sensibilità: "La nuova sensibilità, in cui si esprime il sopravvento degli istinti della vita sull’aggressività e sul senso di colpa, promuoverebbe, su scala sociale, il bisogno vitale di abolire la povertà e la fatica e foggerebbe l’ulteriore evoluzione del ‘ tenore di vita ’. Gli istinti vitali troverebbero espressione razionale." (Saggio sulla liberazione). Questa sensibilità non mi pare affatto in contraddizione con la razionalità, ma solo con quella variante degenere della razionalità che Mauro De Zan ha così bene chiarito nel suo intervento: quella che è espressione di un sistema di dominio sociale, la "ragione strumentale" di cui parla Horkheimer nell’Eclisse della ragione (1947). Insomma, il volto violento della razionalità, per timore del quale non sarei disposta a rinunciare ai vantaggi della ragione: la dialettica dell’illuminismo non è un buon motivo per mandare disperse le conquiste della filosofia illuministica (v. dibattito su Mori e bioetica).

D’altra parte, anche la natura ha il proprio volto di violenza e di morte, e mai come in questi giorni ce ne rendiamo conto. Ma non per questo saremmo dell’avviso di soffocare e distruggere ciò che è "natura" fuori e dentro di noi.

Senza soffermarmi sugli aspetti politico-religiosi del pensare africano, che sono indubbiamente affascinanti, ma rischiano di scatenare quel famoso senso di colpa legato al colonialismo da cui pare noi siamo affetti, vorrei richiamare quella Filosofia intorno al fuoco di Lopes che più di ogni altra evoca nostalgia di un modo di vita perduto. Sarebbe bello potersi trovare intorno al fuoco e sotto un albero, anziché in un ambiente che sa di freddo artificio e noiose conferenze… Certo, sarebbe bello, ma dopo quell’incontro chi preferirebbe rientrare in una capanna, piuttosto che nella propria comoda casa dotata di acqua calda e luce elettrica? La filosofia intorno al fuoco è un mito, così come l’idea della storia ecologica dell’uomo, della relazionalità antropo-cosmica e della sinfonia degli strumenti armonizzati di cui parla Lopes, e così come il comprendere che si colloca nel "contesto comunicativo dell’atto dell’intesa" di cui parla Gadamer.

Ma perché rinunciarvi? Perché piuttosto non cercare di riaffermare ancora e ancora ciò che unisce, mettendo da parte e in secondo piano ciò che divide? La filosofia ha questo grande vantaggio: di vedere le cose da un punto di vista universalmente umano, di congiungere, al di là delle differenti opinioni, di farci sentire una piccola ma non insignificante particella di quella che gli illuministi definivano "la grande catena dell’essere", e gli africani forse chiamano "catena delle forze vitali" che fa di ogni individuo un individuo clanico.

Ho sempre pensato che ogni anziano che muore sia una biblioteca che brucia, fin da quando, bambina, assistevo alla scomparsa di persone di grande cultura e umanità, soffrendo non soltanto per la privazione della loro compagnia, ma anche per il sopruso della cancellazione istantanea della memoria di cui ciascuno di loro era custode.

Può darsi che ciò di cui abbiamo nostalgia sia l’amore viscerale e gratuito della madre, quell’amore che non pone condizioni, e non domanda al figlio di essere ciò che non è, come quello della madre di Wolfgang Amadeus Mozart. " ‘Mi vuoi bene?’ Quante volte l’abbiamo detto, pensato, ascoltato. Interrogativo incompiuto: ne restano a mezz’aria, non dette, le ultime parole: ‘…anche se non fossi come tu mi vuoi?’ " (F. Scaparro, Talis pater). Sì, la madre di Mozart gli vuole bene comunque. Il padre invece solo a condizione che egli dimostri il primato dell’eccellenza. Ma Wolfgang è immortale solo perché Leopold gli ha posto condizioni. Abbiamo bisogno della madre, e abbiamo bisogno del padre. Abbiamo bisogno dell’esprit de finesse, ma anche dell’esprit géometrique, di Dioniso e di Apollo. Non vogliamo rinunciare a nulla, nell’integralità della persona. E vogliamo continuare a cercare e a vivere come il filosofo di cui parla Platone: quello che ha sempre tempo per svolgere discorsi, che magari viene deriso dalla gente perché è impacciato nelle questioni spicciole della vita quotidiana, ma si trova a proprio agio quando si occupa della giustizia e della felicità, e il cui pensiero "se ne vola dappertutto, come dice Pindaro, sotto la terra, misurando le superfici come un geometra, studiando gli astri lassù nel cielo" (Teeteto), e sempre "benevolo coi suoi familiari e conoscenti" (Repubblica). Dobbiamo pensare che la sinfonia filodrammatica sia possibile.

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