Data: 28.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Digito, ergo sum

Questo Caffè filosofico mi pare sia davvero una buona cosa. Chiunque può intervenire e sostenere le proprie opinioni, sia che le creda relative, sia assolute. Grazie, dunque, agli amici Piero e Tiziano che hanno avuto questa bella idea.

Ho riflettuto a lungo sugli ultimi interventi di Piero e Mauro a proposito della relazione Mori. Entrambi sostengono tesi interessanti e ben argomentate. Come negare, ad esempio, che la scienza, come dice il primo, ha creato problemi sempre più complessi e una lunga fila di ipotesi concatenate che generano una serie interminabile di delicatissime questioni morali? E come negare, poi, come afferma il secondo, che la ragione è uno strumento – il solo – a cui facciamo ricorso per risolvere i problemi che ci affliggono? E come non consentire con Tiziano quando mette in guardia da una “delega in bianco” alla tecnologia e alla biogenetica, che rischiano di espropriarci della nostra dignità di persone?

La mia personale posizione è che la relazione di Mori sia stata opportunamente provocatoria, ed abbia saputo esprimersi con giusti accenti, visto il luogo e vista l’occasione. Certo, mi era sembrato assai più interessante il suo intervento alla mia scuola, quattro anni fa, quando aveva analizzato con grande competenza ed efficacia le sottili differenze fra posizioni morali cattoliche, kantiane, gandhiane, tolstoiane, ed aveva chiarito i termini teorici delle problematiche bioetiche. Ma un conto è la scuola, un conto è il Caffè. Confesso inoltre di essere anch’io, come Mauro, un’incurabile illuminista, e di preferire i rischi dell’abuso della ragione rispetto a quelli dell’abuso dell’autorità. Ma non è di questo che intendevo parlare, quanto piuttosto di due questioni.

La prima, forse poco filosofica, sicuramente pratica, nasce da una domanda: alla fine, quando ci troviamo nella necessità di assumere posizioni decise, optando per l’una o per l’altra soluzione di un delicato problema esistenziale, a che cosa ci appelliamo? Credo che esistano almeno due categorie di persone: quelle che trattano Dio come un amico, e quelle che trattano come amici Platone o Cicerone. Sia le une che le altre si rivolgono a un “consigliere interiore” capace di suggerire il comportamento da assumere di volta in volta nelle difficoltà. A Dio o a Cicerone chiederò aiuto quando ho un compito in classe? A Dio o a Platone quando devo scegliere in modo saggio? E’evidente che sia nell’uno che nell’altro caso sono io stesso a scegliere (la voce della coscienza, il demone socratico, che non è poi così superato), sulla base delle mie opzioni culturali, sociali ed etiche. Una differenza però c’è: mentre non esiste nessuno che si ritiene autorizzato a parlare in nome di Platone, esistono nella storia della civiltà occidentale diversi casi di persone che si ritengono autorizzate a parlare in nome di Dio. In questi casi si deve prestare grande attenzione a non smarrire la nostra capacità di giudizio autonomo. E’ vero che più si procede negli anni, più si è portati a recuperare quella fede che ci è stata insegnata nell’infanzia (se mai l’abbiamo smarrita), ma è pure vero che anche le diverse esperienze di vita conducono a scelte valoriali divergenti, fra le quali è difficile orientarsi e qualificare l’una come migliore dell’altra. L’importante è che nessuno pretenda di trattarci come infanti o minorenni, solamente perché la nostra opzione è diversa dalla sua, neppure se la sua è confortata da una lunga tradizione.

La seconda questione nasce da un ripensamento delle serate del primo anno di questo Caffè. L’argomento affrontato non poteva essere più coinvolgente: la persona, l’identità personale. Mi pare che un filo conduttore attraversi gli interventi di tutti coloro che si sono impegnati nell’esprimere i punti di vista delle differenti discipline: l’identità personale è relazione complessa (polidentità) non facilmente circoscrivibile nello spazio né delimitabile nel tempo (quando nasce la persona? quando muore?). Forse si potrebbe aggiungere un’altra prospettiva, tenuto conto della suggestiva dimensione evocata dal filosofo virtuale Andrea Bortolon: la mia identità è ciò che io voglio sia, quando chattando me ne invento una, o più di una, nella maggior parte dei casi assai differente, sotto vari aspetti, da quella reale. Un uomo può diventare donna, o viceversa, un bruttino bello, una attempata recuperare gioventù e fascino, un emarginato può vivere una vita ricca di gratificanti incontri, ognuno può finalmente scatenare i propri desideri più sfrenati. Io sono l’unico giudice della mia identità, io sono ciò che digito, e nessuno può affermare il contrario, per lo meno finché io e l’altro restiamo distanti e divisi. La possibilità di comunicare si paga con l’isolamento nel mondo multimediale. Qui la persona non sa chi è l’interlocutore, e bluffa su se stessa. Ma questo bluff è la mia vera identità, è il nuovo ottativo del cuore cambiato in un presente felice, è la feuerbachiana proiezione alienativa, capace di nascondermi all’altro ma anche di svelarmi a me stesso. E’ la nuova illusione foscoliana, il nuovo sogno freudiano in stato di veglia, che la coscienza non si vergogna più di formulare e non consegna al buio della notte. Digito, ergo sum. Ma a condizione di restare imprigionato nel mio stesso inganno digitale. Non so che cosa penserebbe Severino di un simile uso o abuso della tecnologia, ma certamente si tratta di un fenomeno con cui dobbiamo fare i conti, perché è un fenomeno di quel tempo che, come dice Piero, è il nostro, e in cui dobbiamo pur vivere, orientarci, decidere. Se il nostro è il tempo del pluralismo, dei valori liberali e della democrazia ( e sono convinta che lo sia), allora è giusto e inevitabile che anche la persona sia la persona del pluralismo, una persona plurale. E in quel plurale è compreso ciò che, digitando, voglio fare di me. E sia pure solo in modo virtuale.

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