Certo i primi filosofi, in modo più o meno esplicito e ragionato ( con Platone ed Artistotele in modo molto esplicito e molto ragionato ) hanno considerato l’ ex nihilo nihil come una regola assoluta . Ma se dalla superficie del discorso filosofico scendiamo nel sottosuolo inespresso ma ben più potente, allora ci si accorge che questa regola è del tutto misconosciuta. In Empedocle c’è il lodevole ma goffo tentativo – perfezionato poi da Platone col dualismo ontologico – di conciliare quella che lui ritiene l’esperienza del divenire ( inteso come nascita e morte delle cose) con il principio parmenideo dell’immutabilità dell’essere, escludendo le singole determinazioni (ferro, pietra, carne, ecc.), che appunto nascono e muoiono, dall’essere immutabile definito solo dai quattro elementi primordiali ed eterni (terra acqua, aria, fuoco). Quindi almeno le singole determinazioni prima di essere non erano quello che ora sono, e dopo essere state, tornano all’essere immutabile quindi non sono più quello che sono state.
In altre parole afferma che la cosa, risultato della composizione o della scomposizione dei quattro elementi indivenienti, prima di essere così composta o scomposta non era nella composizione o nella scomposizione in cui poi si trova.
Con la teoria della analogicità dell’essere e la conseguente affermazione del dualismo ontologico (Mondo sensibile e Mondo intellegibile) Platone perfeziona certo il discorso empedocleo ma la sintesi fra determinazioni ed Idea che egli propone è appunto ciò che si genera e si corrompe passando dal non essere all’ essere, e viceversa . Né la sottile distinzione aristotelica fra potenza ed atto risolve il problema, perché ciò che è in potenza non è in atto e viceversa, sì che le cose passano da ciò che prima non sono a ciò che poi sono e viceversa ( prima sono l’essere in potenza e il loro essere in atto non c’è, e po sono l’essere in atto, e il loro essere in potenza non c’è più. Il tempo, cioè, non è altro che la constatazione del divenire, si tratta quindi di un elemento che può giustificare una oscillazione così totale della cosa fra il non essere e l’essere, solo se appunto gli viene conferita e riconosciuta tale funzione. Il fatto che la filosofia greca assegni appunto al divenire tale funzione – la spiegazione cioè del passaggio dal nulla all’essere e viceversa – dovrebbe essere oggetto di dimostrazione; cosa che non avviene se non ancora una volta sul piano dell’evidenza acritica secondo cui sarebbe la stessa esperienza a provare il divenire così inteso. Tutto sta, quindi, nel mostrare se tale interpretazione del divenire sulla base dell’esperienza, sia la sola possibile: e pare proprio che le cose non stiano così dal momento che l’esperienza non mostra l’annichilirsi delle cose, ma si limita a registrare il loro apparire o il loro scomparire senza poter dire alcunché del loro essere profondo. Qui al contrario soccorre la ragione rimettendo in campo l’ex nihilo nihil in tutta la sua radicalità secondo cui l’essere che è – dal momento e nella misura in cui viene constatato - non ha mai potuto né mai potrà essere preda del nulla. Del resto, del nichilismo del pensiero occidentale parla esplicitamente Nietzsche, senza peraltro individuare chiaramente l’alternativa solo abbozzata dalla teoria dell’eterno ritorno.
Già che ci sono tento di rispondere anche alla obiezione avanzata durate la serata dall’amico Antonio Ferrari.
Dice: “ammesso pure che le cose stiano secondo la concezione di un divenire nel segno dell’apparire e non del venir meno del loro essere, quali conseguenze ne deriverebbero sul piano della prassi?”.
Rispondo: ”Nessuna! Salvo la consapevolezza”. Come due persone che si sono perse in una boscaglia: il primo non sa vedere altro che gli alberi e le sterpaglie che gli intralciano il cammino; il secondo ha invece consapevolezza di quale foresta si tratti, se del Casentino o della foresta amazzonica: questo non gli impedisce di togliere di mezzo, come il primo, le sterpaglie poste sul suo cammino, ma gli dà anche una diversa dimensione di valutazione della sua condizione.
Il divenire spiegato nel segno del semplice apparire e scomparire delle cose, e non del loro presunto annichilirsi, toglie certo all’uomo ogni possibilità di interferire profondamente nello svolgersi,secondo il segno della necessità, dello spettacolo del mondo, sì che tutto ciò che accade individualmente e collettivamente, accade appunto secondo necessità. Una necessità che coinvolge evidentemente anche l’accadimento della cultura scientifico-tecnologica nella quale siamo inseriti, e che deve quindi svolgersi e compiersi fino in fondo secondo la profonda razionalità che la governa e che è sostanzialmente riassumibile nella sistematica distruzione di ogni (valore) assoluto perché figlio della contraddizione originaria legata alla concezione profondamente nihilistica della realtà. Ogni tentativo individuale o collettivo di sottrarsi a questa logica sarebbe non solo vano, ma apparirebbe semplicemente patetico.
Ne deriva per l’uomo la necessaria condizione esistenziale di vivere di fede (religiosa, politica, scientifica, ecc.) quindi nell’ incertezza e nel problema, essendo la sua condizione di vita legata alla parzialità (il pensiero dell’uomo può cogliere il concetto astratto del concreto cioè della totalità, non può invece coglierne la reale concretezza: conosciamo la totalità, ma non tutte le cose.): e questa consapevolezza non è nulla (e credo anche che non sarebbe senza conseguenze pratico-politiche).
Questo non impedisce, però, che si faccia avanti la consapevolezza teoretica, come uno spettatore importuno che a metà proiezione anticipi l’esito della vicenda del film: non è il suo momento e verrà zittito. Ma il suo dire, al momento opportuno, mostrerà l’accento di verità di cui è portatore – e di cui è stato stato, sia pure intempestivamente,l’interprete.
Data: 01.07.2013