Data: 01.07.2013

Autore: Silvano Allasia

Oggetto: R: Intervento

Vorrei svolgere alcune osservazioni riguardo l’intervento di Claudio Ceravolo sul tema dell’identità (incontro di novembre), che ho trovato molto stimolante.

Non condivido l’intenzione di Ceravolo di tenere separate identità e identificazione. Perché non intendere l’identità degli individui come il prodotto di identificazioni successive? Mi sembra che la pensi così anche Freud. In L’Io e l’Es (1921), dopo avere descritto la tendenza dell’Es a proiettare su oggetti gli impulsi erotici, Freud sostiene che ogni volta che si deve rinunciare ad uno di questi investimenti, l’Io tende ad assumere l’aspetto dell’oggetto abbandonato. La finalità dell’Io sarebbe ql di alleviare la dolorosa rinuncia cui l’Es è costretto e di conquistarne l’amore. È come se l’Io dicesse all’Es: «Vedi, puoi amare anche me, che sono così simile all’oggetto». Si tratta di un processo di identificazione che Freud ritiene molto frequente, soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo, tanto da giustificare la convinzione che «il carattere dell’Io sia un sedimento di investimenti oggettuali abbandonati». Se aggiungiamo che anche il SuperIo è il prodotto di una identificazione (con le figure parentali), possiamo concludere che i 2/3 della nostra psiche lo siano. Certo Freud descrive casi di identificazione con soggetti singoli (la persona amata, i genitori), ma non succede la stessa cosa quando ci identifichiamo con un gruppo? Anche in qs caso non si tratta di fare nostri determinati caratteri e comportamenti? Credo che queste identificazioni successive non vadano interpretate come meri accidenti di cui la ns vera identità cade vittima, ma come eventi attraverso i quali essa si costituisce.

Naturalmente alla luce di una concezione simile non ha più senso parlare di “quel quid che sta sotto il mio Io e mi rende me stesso” (Ceravolo), né di cercare nell’identità “radici” che addirittura permettano di superare «ogni realtà particolare e di comprendere in se stessa la totalità del reale» (E. Severino; benché radicata in una lunga tradizione, questa frase non suona oggi al tempo stesso roboante e ridicola?). Ma è ancora del tutto possibile concordare con Claudio Ceravolo nell’intendere la nostra identità come narrazione. Non potrebbe infatti trattarsi della sistemazione in un racconto – vale a dire in una successione che soddisfi determinati requisiti di coerenza, sensatezza, sviluppo – delle diverse identificazione di cui ancora resta traccia in ciò che noi siamo? Delle molteplici identità che ci succede di calzare nei diversi contesti della nostra vita (lavoro, famiglia, politica, tempo libero)? Ma anche qui vorrei sottolineare due punti.

Se l’identità è questione di narrazione, non può trattarsi di un racconto che noi prima facciamo a noi stessi e soltanto successivamente agli altri, ma di un racconto che viene costruito in una dimensione intersoggettiva e di cui noi non siamo gli artefici esclusivi: sono gli altri a dirci chi siamo, almeno quanto lo siamo noi stessi. Se non teniamo fermo qs punto, non soltanto va perso qualsiasi riferimento alla costituzione intersoggettiva della nostra identità (la tesi di Mead), ma le stesse suggestioni di Pirandello, che pure troviamo tutti estremamente pertinenti, sono dimenticate.

Pertanto non mi sembra in alcun modo convincente interpretare l’identità come un racconto che emerga a fatica da una irriducibile dimensione soggettiva (mi riferisco al passo di Claudio Ceravolo in cui viene citato il saggio di Nagel). D’altra parte trovo qs affermazione in contraddizione con la tesi che l‘identità sia narrazione. È Ceravolo stesso a sottolineare che «se l’identità si costruisce come narrazione, allora il linguaggio è il solo strumento utilizzabile per questa narrazione». Ma nessun linguaggio privato è possibile, ogni linguaggio ha una dimensione pubblica: dire (o esprimere) qualcosa significa sradicarlo dalla dimensione soggettiva e collocarlo nella luce di una nuova dimensione. Pertanto, se l’identità è narrazione l’identità è fin dal suo sorgere collocata in una dimensione intersoggettiva. Anche su questo punto mi sembra che Freud offra un suggerimento prezioso. Dopo avere scritto L’interpretazione dei sogni, a chi gli obiettava la non osservabilità del sogno (chi è in grado di accedere a quell’oggetto particolare che è l’esperienza onirica del paziente?) Freud rispose che si poteva risolvere il problema decidendo di considerare come sogno “il racconto del sogno”, vale a dire le parole del paziente. Con questo “gesto audace”, scrive Mario Lavagetto, Freud «ha messo definitivamente al bando l' introspezione collocando la verità fuori dalla sua portata: la conoscenza di sé si ottiene solo quando la parola viene metabolizzata e ricostruita attraverso la presenza di un altro che ascolta, osserva, interpreta, costruisce, si incunea al suo interno, nel cuore del "romanzo analitico", man mano che, di seduta in seduta, viene lentamente costituendosi» [ho ricavato tanto l’informazione che la citazione da un articolo del Sole 24 ore, 07/11/99, dal titolo “Il sogno che segnò il secolo”]. In modo analogo, possiamo sostenere che la nostra esperienza soggettiva può confluire nella nostra identità soltanto nella misura in cui si rende “oggettiva”, trasformandosi in parola detta ed ascoltata da un altro, che – qs può sembrare assurdo, ma mi sembra il cuore della questione – è altrettanto rilevante nel costituire la nostra identità quanto lo siamo noi stessi.

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