“La divinità o vuol togliere i mali e non può o può e non vuole o non può e non vuole o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente, e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole, è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l’esistenza dei mali e perché non li toglie?”.
Epicuro (IV-III secolo a. C.) così sintetizza in termini razionali e in maniera mirabile quello che, alcune centinaia di anni più tardi, diverrà IL problema per antonomasia della religione cristiana.
Il problema in Agostino di Tagaste, che Chiara Crespiatico cita, suonerà in questi termini: “Si Deus est, unde malum?”, dove Dio è per definizione onnipotente e infinitamente buono (che è la sola cosa che sia conforme alla divinità), e il male è di tre specie: male fisico - dolore; male morale - peccato; male metafisico - imperfezione. A parte il fatto che Dio debba essere inteso come si è detto, e non come gli dei falsi e bugiardi dell’Olimpo (malvagi e invidiosi), tutto è cambiato. In particolare è cambiato il senso del male morale, che da sopraffazione e ingiustizia è divenuto peccato. D’ora in avanti, l’uomo dovrà sentirsi in colpa, proprio come i presunti amici di Giobbe gli suggeriscono. E d’ora in avanti, come Piero Carelli ha ricordato, i filosofi si arrabatteranno a trovare, ciascuno, una propria risposta al problema, che nella risoluzione più immediata aveva ricondotto gli uomini a una sorta di ingenuo politeismo, con l’attribuzione di tutto ciò che di buono c’è al mondo a un dio buono, e di tutto ciò che c’è di male a un dio cattivo. Questo, come è noto, è il manicheismo abbracciato per un certo periodo di tempo dallo stesso Agostino, e tornato in auge agli albori dell’Illuminismo con la voce Manichéens del Dizionario storico critico di Pierre Bayle. E poi via, con il migliore dei mondi possibili (a cui risponde il peggiore dei mondi possibili di tanti altri filosofi e poeti), e il male come ignoranza, e l’uomo che nasce buono e la società che lo corrompe, e Dio fratello maggiore dell’umanità, infinitamente buono ma non onnipotente, e… tutto inutile: il problema rimane.
Quell’ammaliatore maestro di sottigliezze terminologiche e concettuali che è Salvatore Natoli, di cui Chiara ha citato alcuni testi, in riferimento al dolore di Giobbe – male fisico – nota che si fraintende il dolore di questo personaggio, se lo si qualifica come dolore che ci rende uni . Ciò che contraddistingue il dolore di Giobbe è il senso assegnatogli da Giobbe stesso, rispetto al senso attribuito al dolore, ad esempio, dagli antichi greci. Quel senso è, per l’appunto, lo scandalo. Ma soltanto nella dimensione ebraica il dolore può essere pensato come scandalo, poiché “soltanto in tale dimensione il dolore è innaturale e si può aspettare, con fiducia e certezza, la sua totale sparizione”. Al contrario, un greco “avrebbe preso per folle chiunque gli avesse detto che ci può essere un’esistenza senza dolore”. In questo differente contesto in cui il dolore è naturale, “il problema è di reggerlo, non di discuterlo, di essere dotati di forza, di areté, non di essere titolari di una sfida”. Sulla base di queste premesse, ampiamente argomentate da Natoli, è possibile (ri)costruire un dialogo fra credenti e non credenti rispetto alla differenza di senso? Si tenga presente che non c’è giudizio di verità, in base a cui si possa dire : questo è vero, questo è falso, ma solo giudizio di efficacia, “in base a ciò che l’uomo riesce a costruire nell’economia di senso entro cui è disposto”. Il problema è che “l’esperienza cristiana è l’esperienza del paradosso, mentre l’esperienza tragica è esperienza di lotta”. Questa differenza è radicale, e rende il cristiano, agli occhi del non credente, un problema, non per quanto dice, ma per l’esperienza, che “non può essere mai formulata in termini dialettici, può essere solo testimoniata”. Il mistero, insomma, rimane: perché lui crede? La conclusione di Natoli è: “Per me è sconcertante il testimone. Sono attento a lui, ma non lo capisco”.
Forse però c’è un altro problema: il cosiddetto testimone non è solo il cristiano credente, ma può essere anche il non credente. Nella sua appassionata relazione, incarnata in una giovane vita di testimonianza, Chiara ha dimenticato di dire che le vacanze di condivisione erano (e rimangono, per quanto ne so) momenti di condivisione non solo fra cristiani e disabili, ma anche fra atei dichiarati e credenti, fra atei e disabili, dove il valore condiviso era questo stare vicino all’altro, mentre, per citare ancora Natoli, “l’esperienza del dolore è l’esperienza della separazione”. E tuttavia, proprio in questa esperienza della separazione non c’è l’annullamento della comunicazione, bensì “un’aspra attenzione”. Infatti, il problema privato del dolore si trasfigura in domanda universale sul senso generale del mondo, e del male nel mondo. In questo momento in cui si è separati e chiusi rispetto agli altri, “c’è un tacito accordo a dire che qualcosa si vuole dagli altri, qualcosa ci si aspetta, e probabilmente si crede ancora di poter dare qualcosa di sé”. A questa richiesta di attenzione può rispondere chiunque, qualunque sia la sua fede o non fede, con le motivazioni più disparate, che i più maliziosi qualificano come egoismo camuffato. Ora io domanderei a questi sofisti di provare a vivere anche solo per una settimana la fatica della condivisione del dolore, prima di allontanare da sé con gesto di rifiuto l’esperienza di chi volontariamente vi si cimenta. Preferisco ascrivere queste persone all’apprezzabile schiera di un’altra categoria di ispirazione illuministica: quella dell’ateo virtuoso.
Oggi (più che mai?, no, come sempre) il problema del male assume tinte fosche. Quanti Edipo uccidono il padre, quanti Oreste la madre, quante Medea i figli, quanti Admeto sacrificano la moglie per vivere indisturbati? Quanti uomini uccidono per presunte motivazioni politiche, ideologiche, perfino religiose? Il vero mistero è però ancora più grande: quanti uomini uccidono? Punto. Senza motivo, così, per gioco, come le ragazzine che si annoiano, come l’uomo che fa strage di sconosciuti per la strada. Folli o consapevoli? È questo il nodo centrale, perché se si dimentica il male radicale causato ai propri simili senza alcuna motivazione, non si analizza lucidamente. La natura umana è malvagia. Pochissime, nella storia della filosofia, le eccezioni di chi afferma il contrario. Mi tornano alla mente solo Aristotele e Rousseau. Il piacere dell’infliggere sofferenza è sotto gli occhi di tutti. Non c’è bisogno che qualcuno ce lo rammenti, dall’arena dei gladiatori alle piazze gremite di popolo urlante per godersi lo spettacolo della ghigliottina. Una letteratura mortifera ha insinuato in alcune menti fragili l’idea che ci sia qualcosa di piacevole nella morte dell’altro. “Una volta, ho visto un tizio morto per strada. Era caduto faccia a terra. L’han rivoltato, sanguinava. Ho visto i suoi occhi aperti, la sua aria stralunata e tutto quel sangue. Mi dicevo: ‘Non è nulla, non è più commovente di una vernice fresca. Gli hanno dipinto il naso di rosso, ecco tutto’. Ma ho sentito una sporca dolcezza prendermi alle gambe e alla nuca, sono svenuto.” . E probabilmente a partire da simili letture alcune persone perbene, intellettuali simili ai salauds di sartriana memoria, sono giunte a concepire il delitto perfetto: il delitto senza movente.
Ma allora dal problema del male veniamo brutalmente catapultati addosso, o piuttosto ci piove addosso un altro problema di difficile soluzione: esiste il libero arbitrio? Perché fin dall’inizio i due problemi procedono di pari passo, fin da Epicuro, che affida al saggio il compito di contrastare il presunto invincibile Fato con una vita moderata, all’insegna dell’amicizia; fin da Agostino, che attribuisce il peccato – male morale – alla libertà concessa all’uomo da Dio. Ma con quali garbugli intricati di contraddizioni? Dio sa quale uso farà Adamo di questa libertà, e quindi conosce la dannazione. La determina? No, la pre-scienza non è pre-determinazione. Lo stesso prefisso “pre” non può essere applicato a Dio, che, in quanto eterno, vive fuori dal tempo in un perenne presente. Eccetera eccetera, con il seguito di teorie scolastiche esorcizzate in più di un intervento ieri sera al Caffè filosofico. Giusto.
Ma perché “giusto”? Forse perché da quel luogo per decisione statutaria si bandisce ogni sterile accademismo? No: piuttosto perché fino a questo momento il problema della libertà o meno delle nostre azioni (come del resto il problema del male, e quello della natura umana buona o malvagia) non ha ancora trovato una soluzione soddisfacente: intendo dire una soluzione scientifica con tanto di prove. Così ciascuno è autorizzato ad affrontare problemi come questi nel modo che la sua vita e le sue passioni gli ispirano: per esempio, un medico autorevole come Umberto Veronesi può affermare che, come un tempo Auschwitz, ora per lui “il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”. Uno scienziato come Antonino Zichichi, viceversa, può sostenere che “la scienza ci dice che non è possibile derivare dal caos la logica che regge il mondo, dall’universo subnucleare all’universo fatto con stelle e galassie. Se c’è una logica deve esserci un Autore”. Per quanto riguarda il libero arbitrio, penso che, al di là di prove scientifiche a favore o contro (le neuroscienze mi pare stiano procedendo in direzione ostinata e contraria rispetto all’esistenza di una nostra ipotetica libertà), ognuno di noi desideri e creda pervicacemente di essere libero. Alla luce di questa ingiustificabile opzione pratica, cioè morale, uno decide, ad esempio, di dedicare ai bisognosi il proprio tempo libero, l’altro di andarsene in vacanza, l’altro ancora di scrivere un romanzo, e l’altro di starsene a casa a riposarsi dopo un anno di lavoro.
Ritengo che la relazione di Chiara possa suggerire un convincimento: è tutta questione di formazione. Chi è cresciuto in una famiglia in cui ha assimilato valori di dedizione, altruismo, generosità, ne farà buon uso a vantaggio del prossimo. Ma mi permetto di insinuare un dubbio: come si spiegano le differenze fra fratelli vissuti nello stesso contesto? Forse con l’educazione extrafamiliare? Con le diverse scuole frequentate? Con i diversi gruppi di amici? Non mi pare che queste variabili siano sufficienti per giustificare differenze individuali talora anche fortemente marcate. Infatti la psicologia, di fronte a problemi come questi, riconducibili a “acquisito o innato?”, oscilla indecisa a seconda dei momenti storici, cavandosela solitamente con un pilatesco 50 e 50.
Così di fronte al problema del male ciascuno di noi assume attitudini differenti, a seconda che sia filosofo, teologo, sociologo, sindacalista, medico, scienziato, giovane, vecchio… Tutte queste condizioni danno luogo a un diverso “vissuto” e a diverse “esperienze” che a loro volta conducono a diverse forme di comprensione del “senso della presenza del male nella vita dell’uomo”. Un’altra macroscopica differenza sarebbe stata prodotta dal trovarsi ad affrontare il medesimo argomento il 5 gennaio, anziché il 12 gennaio 2015. Non credo comunque di aver perso il mio tempo, ieri sera.
E se qualcuno mi dice che ragiono come un professore, non mi offendo, anzi mi sento lusingata, e approfitto dell’occasione per suggerire a tutti gli amici del Caffè filosofico una lettura deliziosa: lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati ci propone L’ora di lezione come un’ erotica dell’insegnamento . Da gustare per capire che quello dell’insegnante, malgrado pastoie burocratiche, frustrazioni economiche, discredito sociale ed eventualmente parlare ai muri, può essere il lavoro più appassionante del mondo.
Data: 13.01.2015