Data: 16.11.2015

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Pollicino: sassolini, non briciole di pane

È possibile rendere conto in poche note di una relazione di 90 minuti, quella tenuta dal professor Fabio Minazzi al Caffè filosofico del 9 novembre 2015?
No.
È possibile riassumere super- sinteticamente un testo di 1382 pagine in due volumi?
Ovvio che no.
È possibile imbrigliare in scarne formule la ricca e complessa filosofia di Giulio Preti?
Impresa disperata.
E allora? Rinunciamo a capire perché quella relazione si intitola “Sul bios theoretikòs di Giulio Preti”? rinunciamo ad informare chi non era presente del fatto che quel testo, così intitolato (sottotitolo: “Problemi aperti e nuove prospettive del razionalismo critico europeo e lombardo alla luce dell’Archivio inedito del filosofo pavese”), rappresenta la pubblicazione degli Atti dell’omonimo Convegno internazionale, tenutosi a Varese nell’ottobre 2011, editi nel 2015 da Mimesis, Milano-Udine, a cura dello stesso Fabio Minazzi? e soprattutto deponiamo le armi di fronte alla complessità, rassegnandoci ad ignorare una delle voci più rappresentative della filosofia italiana del Novecento?
Non sia mai detto. Dunque proviamo a spargere qualche briciola nel bosco… pardon: qualche sassolino, indicando un sentiero che andrà battuto personalmente da chiunque abbia interesse ad approfondire strade poco esplorate.
Innanzitutto, il bios theoretikòs. Una vita dedicata alla teoresi, alla ricerca, allo studio contemplativo. È lo stesso Preti a darne una definizione nel saggio apparso sul fascicolo di “Studi filosofici” del gennaio-giugno 1944. L’ideale della vita contemplativa viene ascritto al mondo greco classico, distintosi da altre civiltà come quelle egizia o mesopotamica grazie a filosofi come Platone e Aristotele, che attribuirono un’ “importanza decisiva alla pura teoresi rispetto ad una cultura eminentemente pratica” (Minazzi, pag. 108). Giulio Preti indica nella storica svolta greca “la prima lancia per la conquista della libertà” (Preti cit. ib., pag. 109), ed è evidente che in quell’ideale si riconosce, benché esso, nel mondo antico, venisse affermato a costo di un’ingiustizia di base: la discriminazione fra uomini liberi e (donne) e uomini schiavi. Nel mondo contemporaneo, inoltre, la vita teoretica è entrata in contraddizione con quella “pratica”, che induce a percepire l’uomo di cultura come un lavoratore, il quale deve essere in grado “di guadagnarsi, con il proprio lavoro, specifico e tecnico, il suo pane, con la conseguenza che anche il filosofo, come ogni altro uomo, deve assumere una sua precisa funzione «utile» in seno alla società” (Minazzi, pag.110). Ma guai a ridurre questo aspetto pratico ed utile alla gretta prassi banausica! Di quale antidoto disponiamo, contro tale grettezza? Forse potremmo individuarne uno nella fichtiana Missione del dotto, che assegna al filosofo, in quanto educatore, guida della società e maestro del costume, una sorta di missione morale? No, dal momento che “il filosofo non può e non deve rimanere legato ad alcuna «morale», ma solo alla verità – la fedeltà alla verità, il ricercare, il dire, il proclamare la verità è l’unico dovere che, almeno come filosofo, egli ha e solo di ciò è responsabile davanti agli uomini – questa è la sua vera «missione»” (Preti cit. ib., pag. 112).
Sorgono interrogativi.
Prima domanda: la vita contemplativa è modernizzabile attraverso un interesse per la tecnica che nel mondo greco antico rimaneva circoscritto al “gioco”, essendo gli uomini liberi, grazie alla presenza degli schiavi, esonerati da ogni preoccupazione di lavoro manuale o gretta prassi banausica? Parrebbe di sì, e non solo modernizzabile ma, per così dire, europeizzabile, tanto che Preti può ben essere associato nello studio a quel Carlo Cattaneo che nel 1857 stese il primo manifesto del positivismo italiano, emancipandosi da una cultura italica egemonizzata dallo spiritualismo neoguelfo e lanciando il suo programma da quella città “europea” che è Milano. Un secolo dopo Preti loderà “un’Italia europea, moderna, progressista, che tende all’industrializzazione, al ringiovanimento del costume, al ripudio del peso morto delle tradizioni nazionali” (Preti cit. ib, pag. 1), collocandola geograficamente a Torino e Milano, e identificandone le radici filosofiche, tra l’altro, nel Settecento di Beccaria e dei fratelli Verri.
Seconda domanda: la verità è qualcosa di più “oggettivo” della moralità, tanto che il filosofo si debba considerare responsabile della prima, e non della seconda, data la pluralità dei valori morali, che renderebbero “moralistica” la sua missione culturale? Sì e no. Sì, poiché la verità, pur non essendo un’eterna ed assoluta Idea platonica, riesce ad offrire garanzie di scientificità traducendosi in “asseribilità garantita”, grazie al principio di verificazione (cfr. oltre). No, perché “se si sostiene che «la verità coincide con la verificazione», come potremo mai «verificare» la verità di questo stesso criterio e di questa stessa affermazione?” (Minazzi, pag. 116). A questo punto si crea un circolo vizioso che Preti prova a sciogliere facendo appello ad una precisa responsabilità di ordine pratico, cioè morale, del filosofo: “la vita del filosofo può ben essere vita contemplativa: ma la vita della filosofia non è, o non è soltanto, contemplativa. Sostenere una filosofia è compiere un atto pratico, porsi con una parte, è un militare. Tanto peggio per quei filosofi che non se ne rendono conto” (Preti cit. ib., pag. 117). Ma allora, benché il Fichte della Missione del dotto venga liquidato come moralistico, non si potrà non ritornare al Fichte della Dottrina della scienza, dove si legge che la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché la filosofia non è un’inerte suppellettile che si possa prendere o lasciare, ma è animata dallo spirito di colui che l’assume. In altre parole, all’origine di ogni argomentazione razionale, prima di ogni dimostrazione o verificazione, sta un’opzione pratica, teoreticamente ingiustificabile, che non può in alcun modo venire fondata. Tale presupposto conduce poi Fichte a sostenere il primato della ragion pratica sulla ragion pura, manifestando la propria vicinanza al pensiero kantiano. Ma per venire ad epoche più recenti, in più di un’occasione Mario Dal Pra sostenne ed argomentò la medesima tesi: ad esempio a Crema, nel corso del Convegno “Attualità di Giovanni Vailati”, tenutosi il 21 aprile 1983 presso il Liceo Scientifico, spiegò fra l’altro che” la scienza non indica i fini dell’uomo, eppure la «tavola dei valori» [e qui cita Nietzsche] è fondamentale per operare nella storia, e nasce dalla volontà, dalle passioni, dai sentimenti”. Lo stesso Vailati, pur dichiarando di non essere uomo d’azione, ammette che la conoscenza non è tutto, e qualifica come inutile pretesa quella che la filosofia possa definire con procedimenti puramente conoscitivi il fine ultimo e unico a cui tutti gli uomini devono tendere, foss’ anche la felicità. Allo stesso modo Giulio Preti, nel momento in cui assegna alla filosofia l’obbligo della comprensione, non può non riconoscere che una filosofia è comunque “una scelta, particolare e determinata”, ossia “milizia e responsabilità pratica” (Preti cit. ib., pag. 119): così il bios theoretikòs non è che una delle due polarità della vita umana, il cui altro polo è rappresentato dal bios praktikòs. Gli sforzi conoscitivi possono indicare solo i mezzi, e orientare in modo indiretto le nostre scelte. Ma un quadro di valori deve essere sentito, più che capito.
Irrazionalismo? Assolutamente no. Al contrario, il pensiero di Preti viene definito “razionalismo critico” e illustrato da Minazzi con opportuni riferimenti a Socrate e a Kant, nonché ad altri filosofi (Husserl, Dewey…). Come è possibile comporne una sintesi? Innanzitutto Socrate con la sua domanda “Che cos’è?” viene presentato come il primo razionalista, che sottopone al vaglio della critica ogni convinzione accettata per puro conformismo. A proposito di conformismo, Preti si atteggia in ogni occasione in totale libertà di giudizio, muovendosi ostinatamente contro corrente: comunista durante gli anni della dittatura fascista, dimissionario dal Partito Comunista nel 1946, quando le speranze della Resistenza gli appaiono già tradite dal modo in cui viene avviata la ricostruzione, fortemente critico verso i contestatori del ’68, che si illudono di cambiare il mondo trasformando il costume, ma lasciando intatte le strutture della società… Da parte sua, lui aveva realizzato da tempo quella rivoluzione, ad esempio sposando la poetessa Daria Menicanti con rito civile nel 1937 (!). Ma il razionalismo di Socrate va rinnovato, poiché c’è bisogno di “un nuovo razionalismo” (Preti cit. ib., pag. 127), che si arricchisca del trascendentalismo kantiano, teso a una giustificazione delle conoscenze scientifiche e ora anche tecniche, attraverso l’a priori. È questo ciò che Fabio Minazzi chiama “la mossa kantiana”, che ancora una volta viene però reinterpretata da Preti nel senso che quelle forme a priori di cui Kant discorreva nella Critica della Ragion pura non sono perennemente fissate come spazio-tempo della sensibilità e dodici categorie dell’intelletto, ma vengono progressivamente rielaborate dagli esseri umani – in particolare dagli scienziati – in funzione dei nuovi problemi che via via il mondo propone loro. Insomma, a nuove situazioni problematiche, a inedite sfide della realtà corrispondono nuove risposte e nuove soluzioni, come Dewey ha bene dimostrato nella sua Logica come teoria dell’indagine. Né va dimenticata le lezione di Husserl con l’esigenza critica di prendere le mosse da una “descrizione del contenuto degli atti di pensiero attraverso i quali si costituiscono l’esperienza e il mondo del pensiero con i suoi schemi, le sue categorie, le sue forme, le sue idee direttive” (Preti cit. ib., pag. 127). Dalla fenomenologia husserliana Preti, in un saggio del 1957, fa derivare la nozione di “ontologia regionale”: una regione è, secondo Husserl, “un campo di esperienze che cadono sotto un’unica nozione”, ed è “organizzata da un insieme di strutture a priori che costituiscono esplicitazione della essenza costitutiva della nozione unificante” (Preti cit. ib., pag. 161). Qualcosa come la logica specifica dell’oggetto specifico di cui parlava Marx, o qualcosa come l’idea di Comte di escludere la Logica dalla sua classificazione delle scienze, dal momento che ciascuna scienza ha la propria logica, ossia la propria metodologia.
Siamo al cuore della filosofia di Giulio Preti: il principio di verificazione come regola metodologica che consente di stabilire una forte associazione operativa fra l’empirismo logico e la tradizione di pensiero facente capo al giovane Marx, attraverso l’umanesimo reale di Feuerbach. E qui facciamo riferimento a Praxis ed empirismo (Torino, Einaudi, 1957). Orbene, quel principio fu enunciato da Hume nella seguente formulazione: “un discorso (una teoria, una disciplina, una scienza) è privo di senso fattuale ove almeno una parte degli enunciati in esso contenuti [la classe delle conseguenze] non possa farsi corrispondere ad enunciati descriventi fatti sensibili, veri o falsi secondo il verificarsi o meno dei fatti empirici in essi contenuti” (pag. 33). Dai tempi di Hume in poi il principio di verificazione è stato modificato, e soprattutto è stato abbandonato il concetto paleo-empiristico di verità (come verità empirica immediata definitiva), continuando a conservare la propria validità non in quanto asserzione di un fatto, ma come “regola di metodo”, come “enunciato normativo, che enuncia un ordine, un comando, un consiglio” (pag. 36). Nell’analisi di questa regola metodologica, che qui non è il caso di dettagliare, Giulio Preti esprime al meglio la forte tensione sempre presente nella propria ricerca filosofica, scandita, come il professor Minazzi ha saputo spiegare con pacatezza appassionata, da “un martellante ritmo bipolare antinomico”, evidente “fin dai titoli delle sue principali opere teoretiche, da Idealismo e positivismo (1943) a Praxis ed empirismo (1957), fino a Retorica e Logica (1968)”(Minazzi, pag. 23). Una tensione che rivela certamente un intento unitario , secondo la lettura di Dal Pra riportata dallo stesso Minazzi (ib.), ma da cui senza salti mortali si può anche evincere il significato profondo dell’essere Preti “uomo di scuola” (ib., pag. 37), più volte sottolineato nella relazione del 9 novembre: che cos’è, infatti, l’uomo di scuola, se non uno studioso capace di ascoltare gli alunni e di condurli a considerare, in ogni problema, i diversi punti di vista, alla scoperta di prospettive inaspettate e feconde? E alla fine si tenta – certo – una sintesi sottesa da un intento unitario, ma… non c’è la parola fine, se il giovane decide di dedicare la propria esistenza al bios theoretikòs.
Altri sassolini restano ai margini del sentiero, altre pietre, altri macigni. Se qualcuno vuole ritrovarli, ripercorrendo il viottolo, può provare ad avventurarsi fra gli sterpi del bosco. Ma attenzione: non è detto che scorga una casetta di zucchero filato. Più probabilmente si imbatterà in una disagevole abitazione, simile alla botte di Diogene, dove non si dorme su cuscini di piume, ma si veglia alla tenue luce di una lanterna. O magari entrerà in una Casa Pendente come quella di Bomarzo, dove avrà modo di comprendere il senso dell’esempio di Minazzi secondo cui la significatio, ossia il concetto, poniamo, di cane, sta ai cani come il progetto di edificio disegnato da un architetto sta all’edificio attualmente costruito su quel progetto: significato non ultimato, denotazione incompleta, contenente note indeterminate, variabili. Incompleta e variabile come l’attività che si svolge in quella casa: quella di una vita dedicata alla libera ricerca della verità. Una libertà e una verità che ci è imposto di riconquistare ad ogni stagione della storia.

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