Data: 19.03.2016

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Aut Aut

Un temporeggiatore che non si proteggerebbe dalle folgori sulla via di Damasco: ecco dove mi metterei, nella classificazione umana dei non carnivori (e aspiranti tali) che ho appreso da Livio Cadè al Caffè Filosofico.

Non sono mai entrato in un mattatoio, né in un allevamento intensivo. Sono cresciuto in una famiglia che ha sempre ampiamente consumato carne, da nonni contadini con polli e maiali da uccidere al momento giusto. Attorno alla casa dove sono nato e cresciuto ancora oggi si trovano stalle e pollai. Ho assistito a qualche veloce proiezione televisiva, visionato pochi minuti in rete, letto qualcosa tra libri e riviste. Da questo punto di vista sono figlio legittimo della cultura che obnubila, nasconde accuratamente alla vista e alla coscienza ciò che accade agli animali su scala industriale. Tutto vero.
Ma in questa sede l'obiettivo primario è quello di gettare uno sguardo al nucleo delle argomentazioni, di andare alla vera radice delle scelte; in sostanza, ai motivi più propriamente e profondamente filosofici. Qui mi interessano meno le pur rilevanti considerazioni di stampo variamente ecologico, evoluzionistico, salutistico. Quanta CO2 emettono gli allevamenti. Quanti tumori causa il consumo di carne. Questi sono sentieri laterali (nell'economia del tema qui affrontato, non per l'intrinseca importanza!) di una grande via maestra che solo una decisione può spingere a imboccare. E se si parla di decisioni si parla di etica: solo di etica. Il resto è collaterale e consequenziale. È evidente infatti che spetta a ciascuno di noi decidere cosa fare per diminuire la sofferenza.

L'uomo usa gli altri animali, oggi, per quattro scopi principali: alimentazione; vanità; divertimento; ricerca biomedica. I primi tre ambiti esauriscono assieme la stragrande maggioranza degli impieghi, e sono accomunati da un'altra cruciale caratteristica: il legame tra l'astensione dai relativi "prodotti" - ad esempio bistecche, cosmetici, spettacoli - e la liberazione animale è diretto e non pone problemi etici di sorta. Al contrario i problemi si pongono proprio se a quei "prodotti" non si rinuncia, e chi scrive ritiene che la posizione generale di Cadè in materia sia molto solida, anche quando depurata dagli orientamenti di natura religiosa, storica o sociologica. Tuttavia, molti potrebbero pensare che non ci sia niente di sbagliato nell'uccidere gli animali per mangiarli; tutto starebbe nel modo in cui li si uccide. Sospetto sia il convincimento implicito di larghissima parte della popolazione, la quale, direbbe Cadè, è tuttavia all'oscuro di come in realtà quelle uccisioni avvengono (e al termine di quali lunghe agonie). Anche un approccio parziale e progressivo volto a perseguire un miglioramento delle condizioni di vita degli animali potrebbe rappresentare un apprezzabile mutamento, se applicato sistematicamente e sostenuto culturalmente. Sul versante della ricerca, ad esempio, è la stessa comunità scientifica che ha ormai preso generale coscienza, in dialogo con il legislatore, della necessità di implementare e consolidare il cosiddetto paradigma delle "Tre R": Ridurre (il numero di animali impiegati); Rimpiazzare (l'animale con altri metodi di test); Raffinare (i metodi stessi). Questo genere di soluzioni non ha certo la radicalità che Cadè auspica, ma credo che non le disdegnerebbe.

Siccome sono un temporeggiatore, voglio tentare di andare al cuore del pensiero di Cadè, prima di convertirmi. Mi pare che le sue argomentazioni poggino su due grossi pilastri, solo uno dei quali è propriamente etico, mentre l'altro è ontologico. Il primo è sintetizzato da una sua radicale affermazione: «semplicemente, non ammetto la tortura di nessuno, in nessun caso»; il secondo ha un nome: antispecismo.

Citata alla lettera, probabilmente tutte le persone civili concorderebbero con la prima posizione, soprattutto perché è compromessa dalla parola "tortura". Ma qui l'ambito è anche quello della ricerca biomedica, e mettendo da parte tutto ciò che per Cadè rientra nella complicità nichilista della scienza (argomento su cui dissento ma che non mi interessa affrontare qui), a porsi è un altro dilemma speculare. Oggi tutti noi diamo per scontati servizi medici lo sviluppo dei quali non sarebbe stato in alcun modo possibile senza la preliminare sperimentazione animale, che purtroppo ha causato in passato una grandissima dose di sofferenza. L'obiezione di Cadè e di tutti gli "animalisti" (la parola non mi piace ma non ne trovo una migliore) è quella che «si sarebbero potute trovare altre maniere, senza coinvolgere gli animali»: ebbene, ciò è largamente falso, e non perché l'uomo sia irrimediabilmente malvagio e abbia approfittato di una scorciatoia a buon mercato, ma perché semplicemente non c'erano (e spesso non ci sono ancora oggi) altre tecniche. I limiti erano e sono di natura epistemologica e tecnologica; in una certa misura resteranno per sempre, perché l'essere umano è un agente che procede per tentativi ed errori, non un semidio che sa già tutto per anamnesi o infallibile metodo. Stiamo parlando della storia della medicina, documentata e accessibile. Quella che attesta il travagliato percorso dalla scoperta dei microrganismi che si trasmettono tra i viventi causando infezioni, ai vaccini, agli antibiotici, ai metodi diagnostici come la radiografia, a un elenco lunghissimo di farmaci oggi irrinunciabili, apparenti banalità come l'endovenosa o il controllo dei parametri vitali come la pressione sanguigna, l'anestesia, tutti gli interventi chirurgici. L'elenco è sterminato, e pressoché tutte queste conquiste sono state rese possibili grazie ai test sugli animali. È terribile, è scioccante, ma è la verità. Come dovremmo ricordarci che la bistecca che mangiamo è prima stata un animale che ha sofferto, dovremmo ricordarcelo ogni volta che il dentista ci anestetizza, veniamo operati di appendicite, stronchiamo una infezione pericolosa con l'antibiotico, prendiamo insulina perché siamo diabetici, vacciniamo i bambini, facciamo una lastra per vedere se l'osso è fratturato, perfino quando qualcuno ci fa una puntura.

«Semplicemente, non ammetto la tortura di nessuno, in nessun caso»: l'istanza etica veicolata da questa affermazione, unita al rifiuto di qualunque antropocentrismo (antispecismo), dovrebbe portare Cadè a trarre la conclusione titanicamente coerente che va rifiutato qualunque risultato, utile all'essere umano, derivante direttamente o indirettamente dalla sofferenza scientemente inferta al resto del mondo animale. Questo resterebbe vero anche nell'ipotesi in cui tutte le acquisizioni mediche sopra elencate fossero state possibili senza ricorrere alla sperimentazione sugli animali: resteremmo tuttavia vincolati dai dati di fatto, ormai storicizzati e inalterabili, perché gli animali sono stati sacrificati. Le epidemie di poliomielite, tubercolosi, difterite, pertosse, tifo, rabbia, tetano, morbillo, epatite B… sono state debellate passando attraverso test su animali. Tutta la chirurgia e l’anestesia sono passate da cani, pecore, capre, maiali, vitelli, scimmie. Si poteva fare altrimenti, all'epoca dei loro sviluppi? No. Solo un radicale antispecismo può portare alla conclusione che l'umanità debba, per ragioni etiche, rinunciare a quelle soluzioni, tornare a tassi di mortalità medievali, ricominciare daccapo la ricerca usando solo test in provetta (solo parzialmente disponibili oggi e non certo in grado di coprire tutte le esigenze e azzerare i rischi), per rimettere in commercio nuovi antibiotici, sulfamidici, vaccini, anestetici, farmaci vari. Solo una estrema e paradossale coerenza potrebbe giustificarlo.

Cadè ammette certe linee di demarcazione – provvisorie soluzioni di continuità nel biologico – che gli permettono di evitare i sofismi su insetti o microbi. Non le traccia tra l'uomo e la gran parte degli animali (menziona mammiferi e uccelli, ma direi anche i pesci) perché le strutture della sensibilità al dolore, e spesso delle emozioni, sono comuni. Posso senz'altro condividere il criterio. Ogni linea di separazione è in una certa misura arbitraria, e tracciata per motivi che esulano in tutto o in parte dalla pura razionalità - prima o poi subentrano elementi metafisici ed etici. Non può essere altrimenti: è Cadè stesso a muovere quella linea; è Cadè stesso a rivendicare un'esigenza etica. Non è allora ingiustificabile, da questo punto di vista, pensare che tra l'uomo e gli altri animali esista una forma di alterità ontologica che assegni all'uomo una posizione diversa. Quello che Cadè non accetta è che questa alterità ecceda il dato sensibile - la sofferenza fisica, la manifestazione delle emozioni, l'empatia - per sfondare il metafisico. Sorprendente conclusione conoscendo il pensatore, che si batte strenuamente perché metafisica e senso religioso si riprendano la custodia del mondo, oggi dominato da forze barbare.

Ai filosofi e a molti scienziati piacciono mondi possibili ed esperimenti mentali. Cadè stesso li immagina, scomodando perfino civiltà aliene antropofaghe. Posso quindi proporne uno anch'io. Se in mezzo a una strada trafficata si trovassero immobili un cane e un essere umano, e un'automobile a tutta velocità si avvicinasse a loro, io non avrei dubbi su quale dei due animali tuffarsi per tentare un estremo salvataggio. Ho tracciato una linea. Ho fatto una scelta. Ma con la stessa sicurezza riconosco di essere inchiodato dalla mia ignavia, quando mangio carne e porto mia figlia al Parco delle Cornelle. Un giorno dovrò smettere di temporeggiare.

C'è ancora molto, moltissimo spazio per dire «proteggiamo l'uomo e gli altri animali». Fin dove è possibile, il più possibile.

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