Data: 20.01.2017

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Storici e contemporanei

Forse qualche “antico” alunno di Franco Fergnani sarà rimasto spiazzato, lunedì 16 gennaio, per il taglio impresso da Mauro Trentadue alla presentazione dello studioso. Non mi riferisco alle indiscusse qualità di insegnante attribuite al professore milanese, universalmente riconosciute come eccellenti da chi ha avuto la fortuna di incontrarlo nel proprio percorso di formazione liceale o universitario. Intendo l’indirizzo di pensiero su cui è stato posto l’accento come filosofia da lui sostanzialmente apprezzata e condivisa : nella fattispecie l’esistenzialismo, con particolare riguardo a Jean Paul Sartre. Chiamerò storici quegli “antichi” alunni, al cui gruppo ascrivo anche me stessa per ovvi motivi anagrafici. Dunque gli storici possono essersi domandati: “Ma Fergnani non era marxista? Come può aver aderito ad una filosofia come quella di Sartre accusata dai comunisti d’essere un’ideologia borghese ?”. Sto semplificando, eppure sono certa che a qualche storico sarà balenata una simile perplessità. Non così per coloro che chiamerò i contemporanei, ossia le persone che hanno conosciuto Franco Fergnani in anni più recenti, e che in un certo senso hanno avuto modo di formarsi di lui un’idea meno schematica, più complessa e articolata. A questo secondo gruppo appartiene anche il relatore dell’ultima serata al Caffè filosofico.
A lui, Mauro Trentadue, appassionato custode dell’archivio Fergnani e curatore di preziosi testi per la collana Ricerca filosofica dell’Editore Farina, lascio subito la parola per dissipare quel dubbio:
“Anche se su posizioni vicine a quelle del Marxismo occidentale, la sua indipendenza teorica e il suo feroce antidogmatismo gli hanno consentito di apprezzare la filosofia di Bergson e la sua attenzione al qualitativo, così come lo scetticismo di Montaigne e l’analisi pascaliana della insopprimibile anfibolia dell’esistenza, che consegna l’uomo ad una consapevole fragilità. Avvertiva affinità con Karl Jaspers, quando indicava i confini delle situazioni limite, e analizzava con interesse l’ontologia dell’evasione del primo Lévinas, cui peraltro aveva dedicato l’ultimo corso monografico della sua carriera accademica” (nella Prefazione a Franco Fergnani, La coscienza sadica. Ripercorrendo l’analisi di Jean Paul Sartre, 2016, pag. 12).
Nel testo sopra riportato si fa tra l’altro riferimento ad un saggio di Fergnani che alcuni fra gli storici, per vie traverse, avevano avuto modo di conoscere già allora, benché egli si guardasse bene dal vantarsi in alcun modo dei propri scritti, foss’anche nominandone incidentalmente l’esistenza. Sto parlando di Marxismo e filosofia contemporanea edito da Gianni Mangiarotti nella collana “Lineamenti culturali” diretta da Baldo Curato per la Padus di Cremona nel 1964. Significativo il sottotitolo, che immaginiamo frutto di successive rielaborazioni lessical-concettuali e compromessi tipografico-impaginativi con l’editore: “La discussione tra i marxisti e il dialogo con il pensiero contemporaneo: da Dewey a Sartre e a Merleau-Ponty” (sia detto fra parentesi: lo stesso titolo del libro viene dall’Autore giudicato capace di indicare “con sufficiente approssimazione sia gli scopi che esso si è proposti, sia i limiti che si è prescritti”, corsivo nostro). Ma ciò che colpisce, rispetto al discorso che si sta svolgendo, è che fin dall’Introduzione viene sottolineata la necessità di non trascurare indirizzi di pensiero con i quali siano possibili “utili prese di contatto”. Fra questi vengono nominati pragmatismo e strumentalismo, esistenzialismo, fenomenologia, positivismo logico, comportamentismo e teoria dei segni, che non devono essere frettolosamente liquidati “come dei puri e semplici obiettivi polemici”. Dopodiché, con una sorta di zoom, mettendo a fuoco progressivamente uno specifico soggetto dai contorni inizialmente indefiniti, intravedibile solo da lontano, la riflessione di J.P. Sartre viene promossa come opera di mediazione “non neutrale né trasformistica, fra il marxismo e i prodotti più validi e utilizzabili della cultura borghese”.
A questo progetto filosofico Fergnani rimase fedele per sempre. Come Mauro Trentadue ha opportunamente sottolineato e appassionatamente dimostrato, il professore non cessò mai di studiare e svolgere ricerca, tanto che il suo lavoro di docente universitario non conobbe battute d’arresto o sclerotizzazioni su tematiche rimuginate e mal digerite, ma si volse verso autori che potessero schiudere inedite prospettive etiche e gnoseologiche . L’intento non era quello di trovare mai la Verità o alcuna presunta Idea platonica, bensì di dare alla propria esistenza di filosofo un senso capace di non consegnarlo alla disperazione. Il senso è la ricerca stessa. È questa la direzione indicata dall’ “ottimismo disperato” del pensiero sartriano, scarnificato nello sforzo di traduzione e penetrazione negli scritti di Fergnani. Allo stesso modo, l’“ateismo senza trionfalismi” nasce dalla premessa che l’uomo è un Dio mancato, una passione inutile, a cui Sartre tenta di far seguire una “risposta attiva al non-senso”, attraverso l’engagement (si veda, sempre nelle Edizioni Farina, lo scritto di Fergnani Da Heidegger a Sartre, 2016, pp. 30-31).
Come è stato sottolineato nel corso della serata, l’impegno è concetto centrale nell’esistenzialismo sartriano, sia come engagement littéraire che come engagement existentiel. Ciascuno di noi è responsabile di fronte agli uomini che coinvolge nelle proprie scelte: ogni scelta implica un sistema di valori che vengono testimoniati come degni d’essere sostenuti e difesi. Da qui un’angoscia che non conduce all’inazione, ma che è condizione stessa dell’azione. Un’angoscia, si diceva, destinata a crescere in modo esponenziale nel mondo di internet, dove ogni uomo diviene testimone responsabile di valori di fronte all’intera umanità. Crediamo che per Fergnani l’aver dedicato a Lévinas “l’ultimo corso monografico della sua carriera accademica” non sia privo di significato. Era la responsabilità che, con il congedo dalla docenza, si faceva più esigente, e con essa l’angoscia, destinata di lì a poco ad assumere la veste nera dello scomparire dall’esistenza (“non esisterò più…”: così Franco confessa alla sorella Delia).
Presto Mauro Trentadue ci regalerà altri scritti del nostro amato professore, e anche noi, sia che siamo storici o contemporanei, continueremo a cercare di impegnarci nella comprensione e nella responsabilità, operando scelte inevitabili e gravose. Ma non vogliamo pronunciare nessuna ultima parola che consegni di Franco Fergnani un’immagine definitiva, quasi pietra tombale che faccia calare un silenzio metafisico. Lasciamo a Franco stesso una non conclusione tratta dal libro Nietzsche e la filosofia dell’esistenza (Farina Editore, 2016, pp. 20-21): “Difendere una zona d’incognito per non essere sommersi come puri oggetti decifrati nel mare dell’obiettività postuma, per contestare di continuo, come morti che mantengono un residuo di vita, l’operazione di identificazione e di cattura da parte dei semplificatori […] L’insidia più grave non è il fraintendimento volgare, il travisamento più o meno truffaldino; è lo zelante a suo modo onesto sforzo di capire, esporre, concludere”…

Nuovo commento