Data: 23.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Leopardi filosofo?

Non ho mai pensato che Leopardi potesse essere un filosofo. Non ho mai pensato che Leopardi perdesse qualcosa per il fatto di non essere un filosofo. Certo, ogni poeta ha una visione del mondo ed esprime pensieri più o meno profondi che vanno a formare una sua Weltanschauung. Leopardi, in particolare, integra nella sua poetica elementi di riflessione che provengono da varie filosofie soprattutto francesi e le ripropone in un linguaggio nuovo. Un linguaggio in cui tralucono parole e stilemi della nostra tradizione letteraria, ma anch’esso esclusivamente suo, tanto che non si può non riconoscerlo come una sua creazione.

Ma non perde nulla se non è filosofo: le parole della poesia sono piacevoli perché “destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse”. La filosofia non si può permettere questo tipo di diletto che nasce da “un’immagine vaga, indistinta, incompleta”. I sentimenti della poesia sono “suscettibili di fare illusione”. Così un poeta può affermare, come Catullo, che odia e ama nello stesso tempo, e nessun principio anapodittico potrà mai correggerlo o sanzionarlo. La poesia è più antica e più libera della filosofia, e forse per questo qualcuno dice che la bellezza salverà il mondo.

Premetto che non intendo affrontare un discorso così complesso come quello dell’interpretazione di Leopardi, di cui non sono competente. Mi limito a soffermarmi su un aspetto specifico di questo autore, ossia la consonanza di alcuni suoi pensieri con quelli di un philosophe classificato come noir: il marchese de Sade.

E’ improbabile che Leopardi avesse letto Sade, e viceversa. Sappiamo che Leopardi è coltissimo sostenitore della superiorità del pensiero degli antichi, i quali, quando parlano della natura e degli uomini, lo fanno per esaltarli, mentre i moderni lo fanno per immeschinirli. Si dice che egli, dall’erudizione della filologia, si “converta” al bello della letteratura, e inizi a studiare il greco da solo nel 1813. Due anni dopo si rende conto della povertà della biblioteca paterna (niente Senofonte, niente Tucidide, nessuna edizione critica…). Sappiamo inoltre che ama Platone, ma solo per “il suo stupendo modo di scrivere”, poiché il pensiero di Platone “non poteva nemmeno scalfire il concreto pessimismo leopardiano” (A. Grilli). Dalla lettura degli antichi Leopardi ricaverebbe, secondo Severino, una conclusione: se per gli antichi la verità è scampo dal dolore, per lui è fonte di infelicità. E la verità è che gli uomini non crederanno mai di non sapere nulla, non essere nulla, non avere nulla a sperare dopo la morte. Orbene: non mi pare che sia necessario attendere Nietzsche affinché queste tesi trovino visibilità, poiché un secolo prima di Nietzsche le aveva chiassosamente pubblicate de Sade. L’uomo sadiano, infelice individuo bipede, è forse convinto di potersi ergere di fronte al nulla per affermarlo, ma, come nota Severino riguardo a Leopardi, “la vista del nulla annulla colui che la vede”. E’ certo comunque che è ben consapevole di non essere nulla: “influì mai la morte di un individuo sulla massa generale?”; l’intero genere umano potrebbe scomparire dalla faccia della terra, “che l’aria non sarebbe meno pura, né l’astro meno splendente, né il cammino dell’universo meno esatto”. Chi è? Leopardi del Dialogo della Natura e di un Islandese? O il Cantico del gallo silvestre (1824)? No: è La filosofia nel boudoir (1795) di Sade. E subito dopo: “lo sciocco orgoglio dell’uomo, che crede che tutto sia fatto per lui, resterebbe sbalordito, dopo la distruzione dell’umanità, se vedesse che niente è cambiato nella natura, e che il corso degli astri non ne è stato ritardato”. Quanto alla natura, non è che un principio di annichilamento universale. Di fronte a “una madre simile”, “unicamente impegnata a nuocere agli uomini”, si leva il grido disperato del figliolo deluso: “a che scopo crearci, per renderci così infelici?”. La condizione umana è tanto tragica che “non vi è un solo uomo il quale sceglierebbe di ricominciare a vivere, se gli si presentasse il giorno della morte”. Leopardi del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (1832)? No: La Nouvelle Justine (1797) di Sade. Quanto poi al non avere nulla a sperare dopo la morte, pochi filosofi furono coerenti come il divino marchese, pervicacemente deciso a rifiutare ogni conforto religioso, non solo nella scrittura (Dialogo fra un prete e un moribondo, 1782), ma, ciò che è più significativo, nella propria vita.

Credo sia inutile – e noioso – moltiplicare gli esempi. Vorrei solo tornare all’inizio di queste note: Leopardi esprime sicuramente un pensiero in senso lato filosofico, ma lo fa con quegli strumenti che solo il poeta possiede, e alla fine gli strumenti sopraffanno le idee: intendo dire che, mentre il marchese de Sade, di fronte all’impossibilità per l’uomo di sfuggire all’angoscia del dolore, conclude da filosofo con un disperato ripiegamento su una sorta di apatia, Leopardi ci regala una poeticissima solidarietà verso i singoli esseri della natura, non solo gli uomini, ma le piante e i fiori (“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori”, dallo Zibaldone), pur nella consapevolezza della inimicizia della natura nella sua totalità. Un trionfo dell’olfatto, simbolo dell’indeterminatezza del piacere umano. Insomma, corro volentieri il rischio di essere considerata antiquata, e dico che le parole di De Sanctis conservano una pregnante validità: Leopardi “non crede al progresso, e te lo fa desiderare: non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria , la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. Quale filosofo sa compiere un simile miracolo?

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