DALL'«ESSERE GRANDI CHE PIU' GRANDI NON SI PUO'» AL «FAR DI NECESSITA' VIRTU'». IL CURIOSO MONDO DELLE DIMOSTRAZIONI ONTOLOGICHE DELL'ESISTENZA DI DIO - RELATORE: SAMUELE MASCHIO

14.09.2015 21:00

Dimostrare logicamente l'esistenza di Dio è oggigiorno un'impresa che può sembrare (e probabilmente è) ingenua o quantomeno anacronistica, non perché il problema dell'esistenza di Dio sia un problema meno attuale, ma perché un metodo puramente logico è chiaramente inadeguato a fornire una soluzione al problema.

Tuttavia lo sviluppo degli strumenti della logica, della metalogica e la comprensione dei sistemi assiomatici e deduttivi permettono oggi di formalizzare precisamente gli argomenti classici sull'esistenza di Dio che sono disseminati in secoli di letteratura filosofica, a partire dal famoso argomento di Sant'Anselmo, e di evidenziarne le fallacie o le assunzioni implicite nascoste.

Dopo aver introdotto il problema, alcune idee fondamentali della logica moderna e alcuni sistemi formali utili allo scopo, verrà presentata una panoramica (ovviamente non esaustiva) sulle dimostrazioni ontologiche e matematiche dell'esistenza di Dio, da Sant'Anselmo a Gödel.

 

 Da Sant-Anselmo a Godel.pdf (195330)

 

Samuele Maschio (1985), laureato in matematica, dopo aver conseguito il dottorato in matematica e statistica presso l'Università di Pavia con una tesi in logica matematica, è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Matematica dell'Università di Padova. Accanto alla logica e ai fondamenti della matematica, coltiva l'interesse per la filosofia della matematica e per la divulgazione scientifica.

Dibattito

Data: 28.09.2015

Autore: Salvatore Dattilo

Oggetto: La prova psicologica dell'esistenza di Dio

Nel cap. 23 de "I Promessi Sposi" l'Innominato compie la propria conversione, incontrando il Cardinale Federigo Borromeo. Una pagina vertiginosa. Federigo afferma che Dio ha toccato il cuore dell'Innominato e questi reagisce con veemenza quasi blasfema, opponendo l'ultimo, inconsistente baluardo della ragione: «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?». Ma Dio era nel suo cuore: lo agitava, lo opprimeva, lo tormentava e - ad un tempo - lo attirava.
Chi discetta dell'esistenza ontologica di Dio, per affermarla o per negarla con argomenti di stampo razionale, perde veramente il suo tempo. Dio esiste certamente - come problema o come esigenza - nel cuore, nell'anima di chi lo cerca, di chi lo sfugge, di chi sa d'averlo incontrato e di chi è certo di non poterlo trovare. Dunque non si può negare l'"esistenza psicologica di Dio", così straordinariamente descritta dal Manzoni.
Dio esiste nel pensiero, nell'anima dell'uomo, perché - dice la Bibbia - «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Genesi, 1, 27).
E non importa stabilire se questa immagine sia stampata nel volto o nell'anima umani: ci basta sapere che nel proprio volto (o nella propria interiorità) l'uomo può vedere l'immagine di Dio. E' la grande metafora dello specchio, insieme simbolo e strumento di "riflessione": "pensare" e "riflettere" sono sinonimi per il tramite di questo potente simbolo.
Ma in questo dualismo di "volto" e di "immagine" la riflessione stessa può divenire ambigua e accade di smarrire la posizione iniziale dei due termini: è Dio che riflette su noi la propria immagine o siamo noi che diamo un volto a Dio? Ancora una volta la grande letteratura sa esprimere il dubbio dell'anima: nell'"Eneide" (IX, 184 e s.) Virgilio ci presenta Niso ed Eurialo, amici inseparabili, trepidanti alla vigilia della decisiva battaglia fra i Teucri e i Rutuli. Insieme agitato ed eccitato, Niso, nel mistero della notte, chiede all'amico, forse bisbigliando: «Sono gli Dei, che accendono così le nostre menti, o ciascuno di noi trasforma in un Dio la propria folle passione?».
Grande, fondamentale domanda, a rispondere alla quale ciascuno è chiamato, assolvendo a quel dovere perentoriamente ricordato dalla più celebre iscrizione di tutti i tempi, che campeggiava sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: "Conosci te stesso". Conoscendo te stesso - ci verrebbe da chiosare - conoscerai il tuo Dio.
Ma proprio qui sta un altro punto forte della riflessione che andiamo facendo: l'uomo di oggi è in grado di ripiegarsi in se stesso, rientrando nella propria interiorità per riappropriarsene? Sant'Agostino (un autentico "esistenzialista" cristiano ante litteram) assicura che questa operazione, se riesce, ci farà trovare la luce della verità, che abita in noi. E' lecito, tuttavia, dubitare che, da solo e senza aiuto, l'uomo d'oggi sia capace di muoversi in quella direzione interiore: come può trovare il silenzio necessario? Oggi si è troppo richiamati dalle sirene mediatiche, dalle mode e dalle apparenze esterne, da continue dicerie non verificabili. L'uomo d'oggi è, più che mai, sconosciuto a se stesso. San Paolo, iniziando la missione ad Atene, vide un tempio dedicato "al Dio Ignoto" e così ebbe modo di attrarre l'attenzione degli scettici Ateniesi, annunciando loro che avrebbe rivelato la vera essenza di quel Dio, che, pur sconosciuto, essi veneravano (Atti, 17, 23).
Anche noi, come gli Ateniesi incontrati da Paolo, cerchiamo aiuto a conoscere l'essenza del Dio Ignoto: cioè la forma e il senso della nostra umana esistenza. Ci servirà rientrare in noi stessi per scavare l'oscura pietra che contiene la luce del vero. Se non ne siamo capaci, cominciamo almeno a rientrare nel chiuso e nel silenzio della nostra stanza e rimettiamoci a leggere.

Data: 23.09.2015

Autore: Gabriele Ornaghi

Oggetto: "In cuor suo..."

Si può dimostrare con linguaggio logico, scientificamente, l’esistenza di Dio? Possiamo ridurre Dio, i suoi attributi, il suo essere, a meri simboli della logica formale? Sono quasi mille anni che la filosofia, in un incontro tra fede e ragione, cerca di codificare, di classificare e di ridurre Dio agli schemi del pensiero logico. Il risultato sono pagine di finissimo pensiero, dove il cercatore di Dio,
tra enunciati, assiomi e simboli, rischia di naufragare. Si tratta di un vero naufragio intellettuale,
come lo descrive Agostino d’Ippona nei suoi dialoghi: il cercatore partendo dal porto della propria
esistenza, abbandona la casa sicura dove è cresciuto con il latte della nutrice (Cartesio), per andare alla ricerca della Verità che possa essergli luce per il cammino (Sal 118:105). Due o forse più, sono
le strade che gli si presentano d’innanzi e per chi ha il cuore inquieto la scelta della via da percorre risulta essere ardua. Da dove partire? Dal proprio cuore o dalla propria mente? Affidarsi alla doxa,
al pensiero comune, o interrogare con la propria ragione il mondo che ci circonda? Entrambe le strade appaiono irte di pericoli, di difficoltà, ma il cercatore di Dio non può permettersi il lusso di
rimare fermo, deve mettersi in cammino.

Da Anselmo d’Aosta a Gödel

La ricerca parte necessariamente da chi, prima di noi, ha cercato di aiutare chi è nel dubbio. Il dott. Samuele Maschio, nel suo recente intervento al Caffè Filosofico, ha mostrato come a partire da
Anselmo d’Aosta, dalla dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio, i filosofi occidentali hanno tentato, con diverse argomentazioni, di dimostrare con un linguaggio logico l’esistenza del divino.
Se le pagine che sono state scritte, come ha sottolineato il relatore, possono essere un ottimo esercizio per la mente e per la logica (in particolare quelle di Gödel), il loro risultato è alquanto deludente dal momento che non riescono a dimostrare univocamente l’esistenza di Dio senza cadere in una qualche fallacia. Persino il concetto di Dio, come è stato ricordato, sembra essere messo in discussione senza essere chiarito. Il nostro cercatore di Dio dovrebbe allora rinunciare
alla propria indagine? A mio parere no, semplicemente dovrebbe spostare la propria attenzione.

Il cuore

Durante l’introduzione alla serata, il dott. Maschio ha presentato una serie di possibili risposte/prove non scientifiche all’esistenza di Dio. Fra quelle avanzate vi era quella del cuore, dove la certezza dell’esistenza di Dio si basava sul nostro sentimento, sul fatto che nel cuore lo percepiamo esistente. Condividendo con il relatore l’ovvietà che questa non possa sussistere come una dimostrazione scientifica, vorrei però che ci soffermassimo a considerare il cuore. La ricerca della dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio è sorta proprio a partire da un cuore, quello dell’insipiens, dove viene detto che Dio non esiste: “lo stolto in cuor suo dice: «Non c’è Dio»” (Sal
14). È a partire da questo passo biblico che Anselmo d’Aosta inizia il suo ragionamento ontologico nel tentativo di mostrare al suo interlocutore che Dio esiste. L’esercizio logico di Anselmo non
consiste, come nella precedente opera, in un monologo ma è un dialogo tra un credente e un’insipiens. Circa la personalità dell’interlocutore la storiografia filosofica ha affermato essere
“colui che non sa ancora”. Tuttavia durante la serata ho proposto che l’insipiente possa essere un altro monaco, che nel dubbio fa dire al proprio cuore “Dio esiste?”, come vorrebbe il Salmo 14,
dove Dio chinandosi sul suo popolo non trova neppure un suo cercatore, poiché tutti i cuori sono corrotti. La prof.ssa Patrizia de Capua, come altri dei presenti, sottolinea nel suo intervento che
l’insipiens è semplicemente l’ateo. Ammettendo che l’interpretazione della de Capua fa luce anche sulle risposte di Anselmo d’Aosta al monaco Gaunilone, il quale si erge a difesa degli atei, vorrei focalizzare l’attenzione proprio su quel cuore: perché il salmista e Anselmo scelgono il cuore dell’uomo e non la mente per affermare che Dio esiste o non esiste? Banalmente (e forse non
troppo) si potrebbe rispondere che il cuore per gli antichi era la sede dei sentimenti ma anche della ragione. In particolare la mente del cuore è, secondo la Bibbia, capace di comprendere Dio, i suoi profeti e la legge dell’amore alla quale tutti siamo chiamati. Non appare dunque un caso se Agostino d’Ippona domandandosi dove fosse Dio quando lo cerva afferma: “Tu eri nella profondità della mia parte più intima e nella parte più alta di me”. Anche se la traduzione italiana e il gioco di parole utilizzato dal dottore della grazia non rendono evidente ad una prima lettura la “collocazione fisica” di Dio, egli afferma che Dio si trova nel cuore dell’uomo, in quella parte dove
può essere compreso e da dove può partire il suo annuncio. “Tu eri dentro di me e io fuori, e ti cercavo lì, e deforme mi gettavo sopra queste belle forme che Tu hai creato. Tu eri con me, e io non
ero con Te” così confessa il suo pellegrinare alla ricerca di quella bellezza tanto antica che ha dato pienezza alla sua esistenza. Ancora una volta possiamo domandarci perché proprio nel cuore e
non nell’intelletto che scruta la Scrittura, possiamo trovare Dio, “Dio-esistente”? Chi vuole cercare Dio deve ricordarsi che Egli non usa la logica dell’uomo, la scienza umana, ma i suoi pensieri e le
sue azioni sono mosse da altre “logiche” (Is 55:8).

L’incontro con Dio

La scoperta di Dio, della sua esistenza, può a mio avviso avvenire unicamente in un incontro personale. Come per i discepoli la “scoperta” di Dio è un incontro che si deve fare (Mc 1:16) -, uno
scambio di sguardi (Gv 1:42) tra il nostro cuore e quello di Dio. Si esce inevitabilmente fuori dall’ambito della logica e della scienza che vuole dimostrare le proprie scoperte, per entrare in quel terreno forse troppo fragile per molti della metafisica e della teologia. Ogni credente può portare la propria esperienza, descrivere fin nei minimi particolari l’attimo in cui il suo cuore ha iniziato ad ardere per Dio. Tuttavia poiché nasciamo uno diverso dall’altro, necessariamente la
nostra esperienza sarà diversa. Quello che possiamo (e forse siamo chiamati) a fare è mostrare il cammino che può portare a quest’incontro, non con l’arroganza di chi ne sa di più, ma con la
semplicità dei bambini che ci vogliono mostrare la bellezza di un mondo che noi diamo per scontato.

Lo sputo …

In conclusione vorrei prendere in esame le ultime battute della disputatio tra Anselmo d’Aosta e il monaco Gaunilone, che la prof.ssa de Capua ci ha ricordato nel suo intervento: “Se uno è così
insipiente da dire che non esiste ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, costui non sarà così impudente da dire che non può intendere o pensare che cosa dice. O se si incontra un uomo
siffatto, si deve non solo rifiutate il suo discorso, ma anche coprirlo di sputi”. Fin dal liceo sono rimasto stupito e alquanto perplesso dal suggerimento che il dotto Anselmo da a Gaunilone su
come “persuadere” gli ostinati insipienti: riempirli di sputi. Ma come? Dove finisce la dotta scienza e le raffinate discussioni che dovevano caratterizzare il pensiero della Scolastica? Come può un
magister di teologia e filosofia ridursi ad usare “mezzi” così rozzi? Riflettendo sul passo anselmiano, mi sono ricordato di un altro curioso episodio, questa volta biblico, dove veniva
utilizzato lo sputo. Mi riferisco alla guarigione del cieco nato, raccontata dall’evangelista Giovanni (Gv 9:1-12). Tema della pericope evangelica non è tanto la guarigione miracolosa, quanto
piuttosto la questione del peccato e della teodicea in riferimento ad una deformità fisica. Tralasciando il tema specifico possiamo notare come l’azione di Gesù che sputa per terra per poter
fare del fango da applicare sugli occhi del cieco nato, risulti essere miracolosa. Senza voler avere nessuna presunzione interpretativa di tipo esegetico e storiografico, mi sembra di intuire che nel
suggerimento di Anselmo si celi a tratti il richiamo a questo episodio evangelico. “Come Gesù fece per il cieco nato, così anche tu Gauinilone – sembra volerci dire Anselmo – dovrai sputare negli
occhi dell’insipiente, ridonandogli la vista per poter vedere Dio”. Ovviamente questa mia interpretazione non giustifica il suggerimento di Anselmo che rimane bizzarro. Come ho già detto in precedenza a mio avviso non possiamo dimostrare scientificamente, con il linguaggio logico l’esistenza di Dio, ma possiamo metterci in cammino, iniziare quel viaggio che potrebbe portarci ad affermare con Agostino “mi hai toccato, e io sono infiammato dal desiderio della tua pace”.

Data: 18.09.2015

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: A proposito della prova dell'esistenza di Dio secondo Sant'Anselmo d'Aosta

La comunicazione del prof. Maschio nell'ultimo incontro del Caffè' filosofico è stata troppo stimolante per non essere ripresa, sia pure da un diverso punto di vista rispetto all'analisi del testo anselmiano come egregiamente e convincentemente fa Patrizia De Capua. La supposta prova logica non solo sbanda pericolosamente fino a finire fuori strada, ma costringe ad affrontare il vero tema che non è tanto l'esistenza di dio quanto "chi è dio". Il pensiero occidentale a lungo (e per tanti aspetti ancora oggi) si è servito di dio per giustificare e cosi' spiegare il mondo, meglio il divenire (dal nulla) di tutte le cose. Dio è un assoluto che serve! In realtà, cioè, dio è stato travisato fino al punto di renderlo "funzionale" ad una determinata concezione del mondo. Dio, in questo modo, è stato "nominato", è stato "definito" senza renderci conto che ogni definizione di dio equivale ad un suo travisamento. Di più: se si travisa su dio allora il travisamento colpisce anche l'uomo, anzi tutta la realtà. E il travisamento sull'uomo e sulla realta' significa il dramma, la tragedia. Come ben sa la migliore letteratura - ma in genere tutta l'arte - del '900. Nell'ultimo appuntamento di Crema del Pensiero che aveva come tematica il comandamento "non nominare il nome di dio invano" -a parte l'invano su cui possiamo facilmente metterci d'accordo - più di un relatore ha sostenuto che dio non bisogna nominarlo proprio. Come ben sa Piero Carelli che intitola il suo scritto "chiunque tu sia". Da qui la paradossale conclusione: credo nel dio che non c'è. Che non vuol dire che dio non esiste, né tanto meno che non bisogna credere. E' solo affidato alla fede, purché, beninteso, si tratti di una fede rigorosa, asciutta e sopratutto consapevole che - se anche si sostiene che "dio stesso ha parlato all'uomo" nei profeti e nella chiesa - questo non toglie che il possibile travisamento stia nell'ascolto dell'uomo.

Data: 16.09.2015

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Insipiens tu eris!

Proslogion è il titolo che Anselmo, su pressante invito dell’amico Ugo, legato pontificio, poi arcivescovo di Lione, finì con l’imporre all’opuscolo in un primo tempo intitolato Fides quaerens intellectum , aggiungendovi il proprio nome.
Immaginiamo i codici miniati dei secoli XI-XII: quelli, per l’appunto, in cui visse Anselmo d’Aosta. Il capolettera di ciascun capitolo è un’opera d’arte, che allude al senso intimo di ciò di cui si intende discorrere, raffigurandolo in forme umane o animali, spesso implicate in situazioni complesse e mimetizzate in preziose decorazioni vegetali dai colori luccicanti.
Ora proviamo a ipotizzare che cosa potesse contenere quella P del titolo, che con arbitraria coniazione Anselmo scelse per il suo libro, ad indicare che non si trattava, come nel caso del precedente Monologion (anche questo di sua invenzione), di una meditazione solitaria, bensì di un dialogo con qualcuno. Nella P potrebbe stare quel qualcuno. E qui iniziano i guai. Sì, perché Gabriele Ornaghi ipotizza la presenza silenziosa di un oscuro monaco che sollecita il confratello a portare conferme alla sua fede vacillante. Ma se percorriamo il testo, costruito davvero come un albero simile a quelli della Logica illustrati dall’ottimo relatore Samuele Maschio , ci accorgiamo che dopo un “Proemio” informativo nel quale l’Autore, più che altro, si autogiustifica per la vanità di aver apposto la firma ai due scritti, attribuendone la responsabilità alle pressioni di “molte persone”, il primo Capitolo viene introdotto da un repertorio tratto dalle Sacre Scritture. Ebbene tali citazioni non rappresentano soltanto una rituale concessione alle usanze del tempo, ma una “Esortazione della mente a contemplare Dio”, dove l’ipotetico interlocutore assume le sembianze dell’omuncolo, dell’esule lontano, del servo, del misero macchiato dal peccato originale, che non cessa tuttavia di interrogare Dio (“Ma tu, o Signore, fino a quando?” “Fino a quando, o Signore, ti dimenticherai di noi?” Sal. 6,4 e 13,1) per chiedergli conto della propria infelice condizione. Se l’Esortazione iniziale potrebbe comunque essere rivolta a se stesso, e in particolare a quella mente che stenta ad abbandonarsi senza riserve alla fede, dal secondo Capitolo in poi è chiaro che l’interlocutore è un altro. Non mi pare condivisibile l’interpretazione di chi vi vede Dio. Che senso avrebbe, poi, rivolgersi a Dio per dimostrargli che esiste? “Caro Dio, io credo in te – direbbe Anselmo – ma non si sa mai: lascia che provi a dimostrarti che esisti con un argomento logico in cui metto da parte la fede e ragiono con quell’altra parte di me che è la mente”. Senza contare che, nella presente ipotesi, Dio risulterebbe escluso nel Monologion, dove l’Autore svolgerebbe uno sterile monologo spirituale ignorando l’Altissimo. No, il discorso non è rivolto né a Dio né a se stesso né all’oscuro monaco che si macera nell’ombra, bensì all’ateo: è a lui (pros) che Anselmo propone un discorso (logion) in cui viene argomentata la prima e più importante prova a priori dell’esistenza di Dio.
Vede bene Gaunilone quando, rispondendo ad Anselmo, prende le difese dell’insipiens , che nei Salmi 13 e 52 “dixit in corde suo: non est Deus”. Perché è precisamente con lui che abbiamo a che fare, ed è verso di lui che la P si china premurosa e angosciata, come dedicandosi a persona malata, bisognosa di accudimento e attenzioni speciali.
All’intelligenza di questo insipiens, che non è stultus – poiché stolto è chi non sa usare il proprio intelletto, mentre l’insipiente è uno che ignora, uno che non sa ancora – Anselmo spiega il seguente ragionamento:
1. Tutti gli uomini, anche coloro che ne negano l’esistenza, possiedono il concetto di Dio.
2. Il concetto di Dio è quello di un Ente Realissimo, cioè di un Ente che possiede tutti gli attributi positivi in grado sommo, in assoluto, in modo perfetto: ad esempio onnipotenza, onniscienza, bontà infinita, giustizia infinita...
3. L’Ente realissimo è dunque il concetto di “ciò di cui non possiamo pensare nulla di più grande”.
4. Se gli mancasse l’attributo dell’esistenza, l’Ente Realissimo non sarebbe più “ciò di cui non possiamo pensare nulla di più grande”, poiché potrebbe esistere un altro Ente che, in più rispetto a lui, possieda l’esistenza.
5. Allora “ciò di cui non possiamo pensare nulla di più grande” non può essere solo un concetto, non può esserci solo nella nostra mente (in intellectu), ma deve esistere anche nella realtà (in re). L’Ente Realissimo è un Ente necessariamente esistente. In altre parole, Dio esiste.
Convinto, insipiens? Capisci bene che c’è una differenza fra il progetto del pittore che “premedita ciò che sta per fare” e la realizzazione del progetto, il quadro dipinto. Il primo sta nella mente, il secondo nella realtà. L’Ente Realissimo non è dello stesso genere del quadro solo pensato o già dipinto, poiché “per definizione” quando lo pensi (meglio sarebbe dire se lo pensi), non puoi far altro che pensarlo come esistente, pena la contraddizione logica con il concetto di Ente Realissimo. Insomma, solo l’Ente Realissimo esiste necessariamente.
Che cumulo di assunzioni accessorie surrettiziamente introdotte! Il giovane ricercatore universitario Samuele Maschio, nella sua affascinante e appassionata relazione, ha detto chiaramente che tali assunzioni depotenziano la scientificità di un’argomentazione logica, fino a scardinarla. Proviamo a esplicitarne alcune.
 Tutti gli uomini, atei compresi, hanno il concetto di Dio.
È qui che Gaunilone inizia ad attaccare, avanzando l’obiezione (respondere forsan potest ) che il già nominato insipiente non possiede affatto il concetto di Dio, e ne nega l’esistenza proprio perché non riesce a concepirlo. Non è forse questo il motivo per cui egli dice “nel cuore” che Dio non esiste, non “nella mente”? nella sua mente non c’è quel concetto ben determinato di Dio come Ente Realissimo da cui farne derivare, passo dopo passo, l’esistenza necessaria. Al di sopra del cuore non c’è subito il cielo (v. intervento di Ornaghi): prima c’è il cervello.
 Questo concetto di Dio è sostanzialmente il concetto di perfezione.
E così noi possediamo il concetto di perfezione? E se provassimo a definire la perfezione che cosa diremmo? Saremmo veramente in grado di dire in positivo che cosa intendiamo con la parola “perfezione”? O non ci troveremmo piuttosto ad arrancare in una indicazione in negativo che faccia riferimento a ciò che più ci è familiare: “non così finito e limitato come noi, non così ignorante, impotente, malvagio, ingiusto…”? Lo stesso Cartesio tanto innamorato delle idee chiare e distinte incorrerà nel malinteso di dichiarare che l’idea di perfezione è un’idea innata, presente in modo identico nella mente di tutti gli uomini in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Quanto più saggio Hume, il quale obietta che, in generale, non possediamo alcuna idea innata (nessuna idea è innata, secondo l’empirismo) e, in particolare , nessuna idea di perfezione: se dovessimo giudicare “perfetto”, ad esempio, il cosmo, ci troveremmo nella situazione del contadino sprovveduto che giudica l’Eneide assolutamente priva di difetti, mentre un esperto di letteratura potrebbe rilevarli.
Meglio il mistico, allora, che almeno sta zitto.
 L’esistenza è un attributo o predicato del concetto. L’esistenza di Dio è un’esistenza necessaria, in quanto discende necessariamente (come attributo) dalla definizione del concetto di Dio come Ente Realissimo.
Ancora una volta Hume potrebbe soccorrerci, quando, sempre nei Dialoghi sulla religione naturale (pubblicati postumi nel 1779), afferma che niente è dimostrabile, all’infuori di ciò il cui contrario implica contraddizione. Niente di ciò che possiamo distintamente concepire implica contraddizione. Tutto ciò che concepiamo come esistente lo potremmo anche concepire come non esistente; quindi l’esistenza è materia di constatazione e osservazione, non di dimostrazione o deduzione, e come tale è contingente, ossia non necessaria. In altre parole, secondo Hume l’esistenza non può essere dimostrata, ma solo mostrata, indicata. Dopo Hume, Kant, sferrando il colpo di grazia definitivo contro l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta, sosterrà che il giudizio “x esiste” non è di tipo analitico (il predicato è già contenuto nella definizione del concetto del soggetto), ma sintetico (il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al concetto del soggetto). “Dio esiste” non è dunque un’affermazione che deriva da un’analisi del concetto del soggetto “Dio”, esplicitandone un attributo specifico, quello dell’esistenza; bensì una proposizione in cui aggiungo al concetto “Dio” un nuovo predicato, proprio come quando passo dal concetto dei cento talleri ideali ai cento talleri reali, con un salto dalla logica alla realtà che – ahimè – non avviene senza lacrime e sangue . Tali affermazioni sembrano inestricabilmente legate all’empirismo o al criticismo, ma la stessa Logica contemporanea, se ho ben compreso le spiegazioni dello studioso S. Maschio, non si impegna in alcuna dimostrazione dell’esistenza (nonché di Dio) di nessuna realtà di fatto. L’ambito in cui si muove è infatti quello della coerenza e non contraddittorietà di una serie di proprietà di un certo ordine di realtà, senza pronunciamenti sull’effettiva esistenza della realtà stessa. Tra il criticismo kantiano e la Logica contemporanea, ovviamente, tanta acqua è passata sotto ai ponti, e in quell’acqua naviga tra l’altro la riflessione esistenzialista sul carattere contingente dell’esistenza: esisto da ex-sisto, salto fuori (dal nulla), con conseguenti angoscia ed etica della responsabilità.
Ma non andiamo troppo al largo: quale conclusione ci attende, nel Proslogion, dopo le obiezioni di Gaunilone e le risposte di Anselmo? Un finale accomodante: va bene, dice Anselmo, ammettiamo pure che l’ateo non possegga il concetto di Dio, ma io e te l’abbiamo, e lo traiamo da quella fede che ci accomuna, quindi fra di noi si può parlare e ragionare. “Ti ringrazio per la tua benevolenza sia nella critica che nella lode del mio opuscolo. Poiché infatti tu hai esaltato con tanta lode le cose che ti sembrano degne di essere accolte, è evidente che tu hai criticato quelle cose che ti sembrano deboli per benevolenza e non per malevolenza”.
Come come come? D’un tratto l’interlocutore muta, e non è più il povero malato insipiente da accudire, ma il pari grado (in fede) con cui ci si intende? Ma che bisogno ha costui di prove e argomentazioni logiche? Lui crede già! E se la tua prova non riesce a convincere l’insipiente, perché lui non ti capisce, non serve a nulla.
Il capolettera finale è una S in cui s’ annida il Serpente: “Se uno è così insipiente da dire che non esiste ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, costui non sarà così impudente da dire che non può intendere o pensare che cosa dice. O se si incontra un uomo siffatto, si deve non solo rifiutare il suo discorso, ma anche coprirlo di Sputi”.

Misericordia!

Nuovo commento