IL MALE: VISSUTO E DOTTRINE IN ALCUNE ESPERIENZE FILOSOFICHE ANTICHE E MODERNE - DALLA TESI DI LAUREA DI CHIARA CRESPIATICO

12.01.2015 21:00

Il male, parte integrante del nostro percorso, è il segno tangibile dell'estrema fragilità umana. Non è tanto importante domandarsi da dove viene il male, quanto comprendere il senso della sua presenza nella vita dell'uomo.

L'antica definizione del male come "privazione di bene" sembra chiudere le porte ad ogni tentativo di affrontare il male e di trovare in esso una via per raggiungere il bene. Ma l'uomo è tensione continua verso il bene, proprio perché la sua natura malvagia cerca e desidera ciò che non ha.

Per comprendere in pieno l'importanza di un tema di così ampio respiro è utile domandarsi: in quanti e quali modi si presenta il male durante il nostro cammino?  
Esistono essenzialmente due tipi di male: il male fisico, ossia il dolore in tutte le sue forme, e il male morale, ossia la sofferenza e il peccato. L'uno riguarda la sfera fisica della corporeità, l'altro quella spirituale dell'anima, ma l'uno e l'altro sono strettamente interconnessi e profondamente legati.   
La fragilità del corpo si riflette nell'anima che si fortifica, o come scrive San Paolo: "quando sono debole, allora sono forte".



Chiara Maria Crespiatico (1983) è insegnante di scuola dell'infanzia. Laureata in filosofia, corso di laurea triennale nel 2005 e in scienze filosofiche, corso di laurea magistrale nel 2008 presso l'Universita degli studi di Milano.

Dibattito

Data: 21.01.2015

Autore: Adriano Tango

Oggetto: Il male: ma realmente non sappiamo cos'è?

Prendo atto che, oltre alle persone che nella serata del 12.1.15 mi hanno avvicinato per esprimermi concordanza sul mio dissenso circa il taglio della relazione, individualmente, ma ero un ostracizzato, ora qualcuno esprime analogo parere in forma scritta. Innanzitutto rinnovo quindi le mie scuse alla Relatrice e al Presidente se il tono è stato realmente perentorio e a tratti insofferente. Non è il mio stile, ma per me un periodo così.
E visto che il tema interessa approfondiamo. Andiamo a cercare il male, e suoi rimedi, nella saggezza prioritaria dell'uomo, la semantica. La parola è il momento in cui si esprimono verità molto più profonde di quanto si possa fare con discorsi, e tale saggezza viene tramandata alle generazioni future in forma inconscia e strutturale, quasi contemporaneamente al latte materno. Ovvio: chiamare una cosa con un nome è molto di più che identificarla, vuol dire circoscriverla e correlarla, darle un significato funzionale.
E quale linguaggio è in buona parte correlato al tema del male se non quello giudiziario, a sua volta espressione del sentito del popolo in quella specifica epoca in cui nasce?
Bene, espressione nei verdetti quali "con l'aggravante dei futili motivi" o "con l'aggravante della crudeltà", o al contrario "con l'attenuante della contingenza dello stato di..." non vi dicono niente? Ecco che il male viene a circoscriversi. Qualcosa che si mette in moto, ma supera poi il bilancio dei costi = sofferenza e benefici individuali attendibili e previsti nella progettazione o nell'innesco casuale dell'evento delittuoso, o bellico, politico, economico, comunicativo. Perché ciò accade? Perché l'appagamento è insito nel comportamento stesso, nella ricompensa che la natura ha posto nella nostra macchina istintuale, e si badi bene, come tratto genetico! Il piacere della sevizia, della strage, dell'offesa, dell'umiliazione fino alla distruzione di individui o pluralità servono? Se lo scontro è il modo più rozzo e miope di raggiungimento del benessere individuale o di gruppo la sua estremizzazione in crudeltà, o la sua indipendenza assoluta da fattori motivazionali (ma qui sconfiniamo nello psichiatrico), qualora tale comportamento sia adottato dall'uomo, che nulla ha da guadagnarne se non soddisfazione, un adrenalinico o endorfinico compenso, configura il male.
Perché la tortura del topo da parte del gatto può trovare giustificazione nell'allenamento dei riflessi e nell'insegnamento alla prole, cui il topo ormai privo di forze vien consegnato per il colpo finale, ma l'essere umano non ha giustificazioni, in un'etica etologica, l'unica che, in chiave laica, possa allontanarsi da qualsiasi relativismo epocale. Il godimento per il male morale altrui non fa eccezione, l'umiliazione avanti al popolo del minoritario, il perdente.
Un'osservazione personale: aeroporto di Roma Fiumicinio: si rompe una bottiglia d'olio, affrettati viaggiatori iniziano a scivolare e volare a gambe all'aria. E subito si formano dei capannelli di spettatori nascosti che ben si guardano dall'avvertire, perché devono RIDERE dei malcapitati, mostrare i denti alla sfortuna altrui, con un ghigno non dissimile dal ringhio, quello di una cerchia di lupi verso il compagno caduto in un duello, fino al momento leale. Avete visto "Paperissima" ieri? Vi siete divertiti, sì? Ne siete orgogliosi, lupacchiotti cattivi?
Ma allora è l'uomo a essere costituzionalmente cattivo? No, è attrezzato per tutte le evenienze, e siccome nessuno può sapere cosa ci attende nel futuro quest'attrezzatura da qualche parte deve pur essere custodita, come tutte le altre facoltà di cui siamo dotati. Il punto è nei sistemi automatici di soppressione. Chi tiene le chiavi, quante serrature devono essere fatte girare in serie per attivare il meccanismo? In se stesso solo un meccanismo, appunto: pericoloso come tutti gli altri automatismi quando se ne perda il controllo. La dinamica del passo è altrettanto inconsapevole, uno schema che spontaneamente si attiva nell'infanzia, ma con tanto di processi di inibizione. Se l'equilibrio si rompe il cammino è malattia: si chiama wandering. Il soggetto cammina incessantemente, incapace di fermarsi fin quando le forze gli vengono meno, o si è cacciato in qualche guaio, come accade ai più predisposti, gli anziani.
C'è forse ancora posto quindi alla concezione del male come errore, ma risulta estremamente riduttiva, dato il grado di atrocità che può scatenare. Nessuno spazio al male come contrario del bene, in quanto azione nefasta, che trova nel bene il lenitivo delle conseguenze, non il proprio opposto. Perché allora è così indispensabile "la buona azione"? Non solo per l'effetto immediato, ma per quello moltiplicativo, perché l'uomo è un animale gregario che agisce per imitazione, e ben lo sanno gli operatori finanziari, o i maghi della moda. Quindi anche il bene può dilagare, come un'onda che spegne gli incendi. Ma così arriviamo alla radice del problema? No: consapevolezza, pressione culturale, pressione sociale (l'opinione), se necessario l'azione coercitiva o soppressiva, in caso di urgenza, ma sempre consapevoli che con i rimedi estremi la temperatura sale. In un'epoca di vita quasi pacifica (vale ovviamente il confronto storico con qualsiasi altra,) si potrebbe temere che la pressione nelle viscere della terra, la lava del vulcano, stia crescendo allarmantemente, oppure valutare che nuovi strati di terra solida (tutti i freni inibitori accennati) si stiano sovrapponendo, perché tale è l'antidoto preventivo al fattore scatenante, il disuso, una generazione dopo l'altra, come il bene è la cura per le conseguenze: le sofferenze inflitte.

Data: 19.01.2015

Autore: Silvana Taloni

Oggetto: Semplici riflessioni di un’uditrice. Serata non inutile ma proficua ed inaspettata

Voglio condividere con i soci ed amici del Caffè Filosofico alcune mie riflessioni, circa la serata di lunedì 12. Come altri, anche io avevo inteso che l’argomento “male”, oggetto dell’ultimo incontro del Caffè, sarebbe stato trattato come “offesa”, “crudeltà”, “danno”, “volontà di colpire” e non prevalentemente come “sofferenza”. Quindi sono rimasta un po’ spiazzata dalla relazione fatta, anche se ho apprezzato l’esperienza personale della relatrice, trovandovi dei punti comuni, avendo fatto anche io volontariato con persone disabili. A mio parere tuttavia, a seguito di alcuni interventi fatti e alcune risposte date, la serata è diventata spunto di riflessione reale sul male. Che cos’è il male? E soprattutto da che cosa scaturisce? Un primo ostacolo al suo manifestarsi sarebbe poterne eliminare le cause. Che impresa! È infatti facile cadere nelle sue premesse. Bastano alcune incomprensioni, disguidi, poca chiarezza o poca delicatezza, ad innescare vortici, dinamiche o meglio situazioni che se vengono affrontate con il pathos sbagliato portano magari a non considerare la sofferenza altrui e alla fine causare la propria. Risultato la sofferenza, grande maestra di vita per tutti, rimane inascoltata. Se tutti noi avessimo la delicatezza di capire o meglio di prevenire la sofferenza altrui, forse il male comincerebbe a perdere un po’ di potere.

Data: 14.01.2015

Autore: Adriano Tango

Oggetto: Il male o i mali?

Il male come opposto del bene?
Il male come errore?
Il male come sofferenza fisica o morale o come sua forza effettrice?
Ma esiste "il male" con una sua autonomia concettuale?

Partiamo da una situazione socio-etologica semplice: una mandria di cavalli bradi al pascolo. Fase 1: un tafano morde lo stinco posteriore di un equino. Parte automaticamente un calcione in retrocarica, che casualmente colpisce un altro cavallo alle terga. Fase 2: il secondo reagisce d'istinto alla stessa maniera, e pare tutto finisca lì. Già, se brucando instancabili non si girassero, scoprendo di essere due maschi. Il branco di giumente assiste. La posta: la supremazia riproduttiva, l'onore! Fase 3: si affrontano, volutamente questa volta. Zoccoli anteriori e colpi ben centrati, denti che affondano nel collo, bava, sangue, alti nitriti. Adrenalina, nessuno spazio al dolore. Il più giovane cede, si dilegua con le orecchie basse, il riaffermato capo del branco lo osserva per un attimo. Non riconosce in lui un membro della propria linea germinale collaterale, addirittura la stessa pomellatura del mantello. La manovra di allontanamento del puledro gli appare troppo lenta e irriverente. Fase 4: lo insegue, lo ribalta d'impeto, lo scalcia ripetutamente all'addome e affonda nuovamente i denti. La storia prosegue: il puledro arrancando si allontana. Non soffre delle ferite, ma della sua situazione di esule, espulso dal branco, male morale. Ma da qui può nascere la sua fortuna. Potrebbe incontrare i lupi, essere convertito in cibo, e ci sarebbe sofferenza fisica, perdita della vita, ma tutto secondo l'ordine naturale delle cose, non il Male. Oppure trovare una valle collaterale dove fermarsi, irrobustirsi, attrarre un paio di giovenche, elementi gamma di altre mandrie e dar vita alla sua famiglia.
Il male non in fase 1, l'errore, non il male, in fase 2, il riflesso condizionato, non il male in fase 3, solo il comportamento dettato dal codice genetico. Non nell'eventuale morte del cavallino, attaccato dai lupi, ma in fase 4. nel comportamento ulteriore dello stallone, a scontro già terminato. Ecco il male: perché un cavallo non è un felino, non è un gatto che sevizia un topo come lui insegnato dalla sua genetica. Lo stallone è in errore, si comporta con crudeltà. Tutte le fasi hanno causato del male, prima fisico, poi morale, ma si chiama sofferenza, male patito. Il Male unico e vero è quello che sovverte una regola di natura. Perché continuiamo a fare del male? Per profitto? No, quello è il tafano, l'occasione. Perché frammenti del nostro codice comportamentale sono lasciati liberi di attivarsi per futilità, e quando una funzione si riattiva, sia quella del cammino sotto forma di passeggiata al sole come le più atroci pulsioni, la natura ci ricompensa con l'unica moneta che possiede: il piacere. È una meccanica da conoscere e riconoscere dalle prime fasi. Per fortuna possiamo lavorare nel seppellire questi pulsanti d'azione sotto strati di divieti collettivi e tabù individuali, sempre più spessi, lavorare sul'epigenetica, come hanno fatto da millenni i cinofili (per fortuna non sulla selezione). Anche il più mansueto dei cani, come risaputo, ha il suo pulsante accessibile da qualche parte, ma bisogna che il meccanismo sia così obsoleto da essere rugginoso, inceppato, o necessitante di una manovra specifica per riattivarsi, una manovra abbastanza complessa da richiedere ragionamento e ponderazione. Come si fa? Come i vigili del fuoco, continui spazi disboscati tagliafiamme, un sacrifico di piante per salvare il bosco, lavorando perché non succeda più, anno dopo anno, con l'opposizione di forza contro forza se necessario, ma nel continuo ricordo del rischio della perdita di controllo, perché la collettività è amplificazione. Magari, nella fattispecie dell'esempio, l'interposizione di un cavallo santo cui fosse toccata una zoccolata al posto di uno dei contendenti, avrebbe bloccato la rissa, ma solo al suo insorgere, o poco dopo. Già, il bene non contrario del male, né il buio contrario della luce, ma zero luce, il freddo non contrario del caldo, ma zero assoluto / nessun calore, e il bene spugna assorbente del male, la prosciugazione e presa in carico della sofferenza altrui come unico antidoto, un lenitivo che poi si attiva gradatamente ponendosi in gioco come vaccino, catalizzatore che dal piccolo fatto locale può invertire il segno della reazione generale. Può, e solo a volte, ma quelle volte contano, perché segnano il tempo. Perché nella fase 4 non c'è più alcun santo o autorità che possa intervenire, il processo può spegnersi solo per esaurimento della massa comburente. E non parlo solo di violenza, ma di tutti i tipi di mali: quello fisico, quello morale, della mortificazione individuale e etnica, dell'individuazione arbitraria dell'opposto nel tentativo di esorcizzare la nostra quota di diversità, del nemico nel nostro stesso ambito di confini, quello della riduzione all'inedia, ingegnerizzata, ai danni di grandi masse di popolazione, attuata dalla nostra plaudita scienza economica neolibertaria. Fenomeni da lavorare ai fianchi, per fiaccarli, vista l'impossibilità dello scontro frontale, in quanto generatori e motori innescati dalla nostra stessa struttura vitale umana, per quanto razionalmente osteggiati.

E per concludere, alla gentile dottoressa Chiara Crespiatico, con la quale, nella serata del 12-1, avrei potuto anche essere più condiscendente e meno categorico nel mio giudizio di "trattamento di aspetti marginali del tema", e soprattutto come contrappeso mettere in rilievo l'ottima preparazione e regia dell'evento, le mie scuse per un giudizio di insoddisfazione affrettato. Ho impiegato poco tempo mordicchiato da altri impegni a stendere queste note, ma una scorsa al tema, brutalmente via internet, l'ho data, anche se poi non ho fatto alcun uso di citazioni, come mio solito. Stupore! Un grosso canale di comunicazione parte dalla sua stessa premessa, prosegue per via Giobbe… Adesso non mi denunci con l'accusa di calunnia di plagio! Voglio solo dire che mi sbaglio io, altri e quotati espositori hanno lo stesso suo approccio, e forse non ho dato il giusto peso alle sue citazioni. Forse solo io cerco di evitare la confusione fra la sofferenza e il male, aspetto privato o collettivo ma comunque passivo contro quello attivo. Quindi attenti agli errori, non alle intenzioni, ricordatevi della vostra mappa comportamentale nascosta, attenti ai pulsanti giusti, e non inducete anche gli altri in errore. A proposito, sono partito da tre dubbi su alcuni connotati del male, e spero di essere stato chiaro, e una domanda secca. La risposta al quarto quesito è no: preferirei parlare di attivazione comportamentale negativa e autoalimentante, con evidente possibilità di epilogo nell'atrocità. Ma la cosa sconvolgente è che dopo tutti i miei criteri di esclusione il fenomeno, questo comportamento variegatamente crudele, cinicamente insensibile, incapace di retromarcia e scatenato da una pulsione all'appagamento personale incommensurabile alla devastazione prodotta, è solo umano purtroppo.

Data: 13.01.2015

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Che male ti fo?

“La divinità o vuol togliere i mali e non può o può e non vuole o non può e non vuole o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente, e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole, è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l’esistenza dei mali e perché non li toglie?”.
Epicuro (IV-III secolo a. C.) così sintetizza in termini razionali e in maniera mirabile quello che, alcune centinaia di anni più tardi, diverrà IL problema per antonomasia della religione cristiana.
Il problema in Agostino di Tagaste, che Chiara Crespiatico cita, suonerà in questi termini: “Si Deus est, unde malum?”, dove Dio è per definizione onnipotente e infinitamente buono (che è la sola cosa che sia conforme alla divinità), e il male è di tre specie: male fisico - dolore; male morale - peccato; male metafisico - imperfezione. A parte il fatto che Dio debba essere inteso come si è detto, e non come gli dei falsi e bugiardi dell’Olimpo (malvagi e invidiosi), tutto è cambiato. In particolare è cambiato il senso del male morale, che da sopraffazione e ingiustizia è divenuto peccato. D’ora in avanti, l’uomo dovrà sentirsi in colpa, proprio come i presunti amici di Giobbe gli suggeriscono. E d’ora in avanti, come Piero Carelli ha ricordato, i filosofi si arrabatteranno a trovare, ciascuno, una propria risposta al problema, che nella risoluzione più immediata aveva ricondotto gli uomini a una sorta di ingenuo politeismo, con l’attribuzione di tutto ciò che di buono c’è al mondo a un dio buono, e di tutto ciò che c’è di male a un dio cattivo. Questo, come è noto, è il manicheismo abbracciato per un certo periodo di tempo dallo stesso Agostino, e tornato in auge agli albori dell’Illuminismo con la voce Manichéens del Dizionario storico critico di Pierre Bayle. E poi via, con il migliore dei mondi possibili (a cui risponde il peggiore dei mondi possibili di tanti altri filosofi e poeti), e il male come ignoranza, e l’uomo che nasce buono e la società che lo corrompe, e Dio fratello maggiore dell’umanità, infinitamente buono ma non onnipotente, e… tutto inutile: il problema rimane.
Quell’ammaliatore maestro di sottigliezze terminologiche e concettuali che è Salvatore Natoli, di cui Chiara ha citato alcuni testi, in riferimento al dolore di Giobbe – male fisico – nota che si fraintende il dolore di questo personaggio, se lo si qualifica come dolore che ci rende uni . Ciò che contraddistingue il dolore di Giobbe è il senso assegnatogli da Giobbe stesso, rispetto al senso attribuito al dolore, ad esempio, dagli antichi greci. Quel senso è, per l’appunto, lo scandalo. Ma soltanto nella dimensione ebraica il dolore può essere pensato come scandalo, poiché “soltanto in tale dimensione il dolore è innaturale e si può aspettare, con fiducia e certezza, la sua totale sparizione”. Al contrario, un greco “avrebbe preso per folle chiunque gli avesse detto che ci può essere un’esistenza senza dolore”. In questo differente contesto in cui il dolore è naturale, “il problema è di reggerlo, non di discuterlo, di essere dotati di forza, di areté, non di essere titolari di una sfida”. Sulla base di queste premesse, ampiamente argomentate da Natoli, è possibile (ri)costruire un dialogo fra credenti e non credenti rispetto alla differenza di senso? Si tenga presente che non c’è giudizio di verità, in base a cui si possa dire : questo è vero, questo è falso, ma solo giudizio di efficacia, “in base a ciò che l’uomo riesce a costruire nell’economia di senso entro cui è disposto”. Il problema è che “l’esperienza cristiana è l’esperienza del paradosso, mentre l’esperienza tragica è esperienza di lotta”. Questa differenza è radicale, e rende il cristiano, agli occhi del non credente, un problema, non per quanto dice, ma per l’esperienza, che “non può essere mai formulata in termini dialettici, può essere solo testimoniata”. Il mistero, insomma, rimane: perché lui crede? La conclusione di Natoli è: “Per me è sconcertante il testimone. Sono attento a lui, ma non lo capisco”.
Forse però c’è un altro problema: il cosiddetto testimone non è solo il cristiano credente, ma può essere anche il non credente. Nella sua appassionata relazione, incarnata in una giovane vita di testimonianza, Chiara ha dimenticato di dire che le vacanze di condivisione erano (e rimangono, per quanto ne so) momenti di condivisione non solo fra cristiani e disabili, ma anche fra atei dichiarati e credenti, fra atei e disabili, dove il valore condiviso era questo stare vicino all’altro, mentre, per citare ancora Natoli, “l’esperienza del dolore è l’esperienza della separazione”. E tuttavia, proprio in questa esperienza della separazione non c’è l’annullamento della comunicazione, bensì “un’aspra attenzione”. Infatti, il problema privato del dolore si trasfigura in domanda universale sul senso generale del mondo, e del male nel mondo. In questo momento in cui si è separati e chiusi rispetto agli altri, “c’è un tacito accordo a dire che qualcosa si vuole dagli altri, qualcosa ci si aspetta, e probabilmente si crede ancora di poter dare qualcosa di sé”. A questa richiesta di attenzione può rispondere chiunque, qualunque sia la sua fede o non fede, con le motivazioni più disparate, che i più maliziosi qualificano come egoismo camuffato. Ora io domanderei a questi sofisti di provare a vivere anche solo per una settimana la fatica della condivisione del dolore, prima di allontanare da sé con gesto di rifiuto l’esperienza di chi volontariamente vi si cimenta. Preferisco ascrivere queste persone all’apprezzabile schiera di un’altra categoria di ispirazione illuministica: quella dell’ateo virtuoso.
Oggi (più che mai?, no, come sempre) il problema del male assume tinte fosche. Quanti Edipo uccidono il padre, quanti Oreste la madre, quante Medea i figli, quanti Admeto sacrificano la moglie per vivere indisturbati? Quanti uomini uccidono per presunte motivazioni politiche, ideologiche, perfino religiose? Il vero mistero è però ancora più grande: quanti uomini uccidono? Punto. Senza motivo, così, per gioco, come le ragazzine che si annoiano, come l’uomo che fa strage di sconosciuti per la strada. Folli o consapevoli? È questo il nodo centrale, perché se si dimentica il male radicale causato ai propri simili senza alcuna motivazione, non si analizza lucidamente. La natura umana è malvagia. Pochissime, nella storia della filosofia, le eccezioni di chi afferma il contrario. Mi tornano alla mente solo Aristotele e Rousseau. Il piacere dell’infliggere sofferenza è sotto gli occhi di tutti. Non c’è bisogno che qualcuno ce lo rammenti, dall’arena dei gladiatori alle piazze gremite di popolo urlante per godersi lo spettacolo della ghigliottina. Una letteratura mortifera ha insinuato in alcune menti fragili l’idea che ci sia qualcosa di piacevole nella morte dell’altro. “Una volta, ho visto un tizio morto per strada. Era caduto faccia a terra. L’han rivoltato, sanguinava. Ho visto i suoi occhi aperti, la sua aria stralunata e tutto quel sangue. Mi dicevo: ‘Non è nulla, non è più commovente di una vernice fresca. Gli hanno dipinto il naso di rosso, ecco tutto’. Ma ho sentito una sporca dolcezza prendermi alle gambe e alla nuca, sono svenuto.” . E probabilmente a partire da simili letture alcune persone perbene, intellettuali simili ai salauds di sartriana memoria, sono giunte a concepire il delitto perfetto: il delitto senza movente.
Ma allora dal problema del male veniamo brutalmente catapultati addosso, o piuttosto ci piove addosso un altro problema di difficile soluzione: esiste il libero arbitrio? Perché fin dall’inizio i due problemi procedono di pari passo, fin da Epicuro, che affida al saggio il compito di contrastare il presunto invincibile Fato con una vita moderata, all’insegna dell’amicizia; fin da Agostino, che attribuisce il peccato – male morale – alla libertà concessa all’uomo da Dio. Ma con quali garbugli intricati di contraddizioni? Dio sa quale uso farà Adamo di questa libertà, e quindi conosce la dannazione. La determina? No, la pre-scienza non è pre-determinazione. Lo stesso prefisso “pre” non può essere applicato a Dio, che, in quanto eterno, vive fuori dal tempo in un perenne presente. Eccetera eccetera, con il seguito di teorie scolastiche esorcizzate in più di un intervento ieri sera al Caffè filosofico. Giusto.
Ma perché “giusto”? Forse perché da quel luogo per decisione statutaria si bandisce ogni sterile accademismo? No: piuttosto perché fino a questo momento il problema della libertà o meno delle nostre azioni (come del resto il problema del male, e quello della natura umana buona o malvagia) non ha ancora trovato una soluzione soddisfacente: intendo dire una soluzione scientifica con tanto di prove. Così ciascuno è autorizzato ad affrontare problemi come questi nel modo che la sua vita e le sue passioni gli ispirano: per esempio, un medico autorevole come Umberto Veronesi può affermare che, come un tempo Auschwitz, ora per lui “il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”. Uno scienziato come Antonino Zichichi, viceversa, può sostenere che “la scienza ci dice che non è possibile derivare dal caos la logica che regge il mondo, dall’universo subnucleare all’universo fatto con stelle e galassie. Se c’è una logica deve esserci un Autore”. Per quanto riguarda il libero arbitrio, penso che, al di là di prove scientifiche a favore o contro (le neuroscienze mi pare stiano procedendo in direzione ostinata e contraria rispetto all’esistenza di una nostra ipotetica libertà), ognuno di noi desideri e creda pervicacemente di essere libero. Alla luce di questa ingiustificabile opzione pratica, cioè morale, uno decide, ad esempio, di dedicare ai bisognosi il proprio tempo libero, l’altro di andarsene in vacanza, l’altro ancora di scrivere un romanzo, e l’altro di starsene a casa a riposarsi dopo un anno di lavoro.
Ritengo che la relazione di Chiara possa suggerire un convincimento: è tutta questione di formazione. Chi è cresciuto in una famiglia in cui ha assimilato valori di dedizione, altruismo, generosità, ne farà buon uso a vantaggio del prossimo. Ma mi permetto di insinuare un dubbio: come si spiegano le differenze fra fratelli vissuti nello stesso contesto? Forse con l’educazione extrafamiliare? Con le diverse scuole frequentate? Con i diversi gruppi di amici? Non mi pare che queste variabili siano sufficienti per giustificare differenze individuali talora anche fortemente marcate. Infatti la psicologia, di fronte a problemi come questi, riconducibili a “acquisito o innato?”, oscilla indecisa a seconda dei momenti storici, cavandosela solitamente con un pilatesco 50 e 50.
Così di fronte al problema del male ciascuno di noi assume attitudini differenti, a seconda che sia filosofo, teologo, sociologo, sindacalista, medico, scienziato, giovane, vecchio… Tutte queste condizioni danno luogo a un diverso “vissuto” e a diverse “esperienze” che a loro volta conducono a diverse forme di comprensione del “senso della presenza del male nella vita dell’uomo”. Un’altra macroscopica differenza sarebbe stata prodotta dal trovarsi ad affrontare il medesimo argomento il 5 gennaio, anziché il 12 gennaio 2015. Non credo comunque di aver perso il mio tempo, ieri sera.
E se qualcuno mi dice che ragiono come un professore, non mi offendo, anzi mi sento lusingata, e approfitto dell’occasione per suggerire a tutti gli amici del Caffè filosofico una lettura deliziosa: lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati ci propone L’ora di lezione come un’ erotica dell’insegnamento . Da gustare per capire che quello dell’insegnante, malgrado pastoie burocratiche, frustrazioni economiche, discredito sociale ed eventualmente parlare ai muri, può essere il lavoro più appassionante del mondo.

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