LE TEORIE DELL'ARGOMENTAZIONE. LE LOGICHE DEL DIALOGO - RELATORE: PAOLA CANTU'

11.09.2006 21:00

Che cosa significa argomentare? La teoria dell’argomentazione si interroga su che cosa significa addurre “ragioni” a sostegno delle proprie tesi e si chiede se ci siano ragioni migliori di altre. La validità di un argomento è determinata dalla sua efficacia o dalla conformità ad un modello ideale di ragionamento? Perché è più ‘razionale’ seguire le regole?

Per ricostruire e valutare gli argomenti del ragionamento quotidiano è necessario tener conto del contesto in cui sono prodotti: l’attenzione pragmatica alla varietà dei contesti comunicativi potrebbe condurre ad un abbandono della pretesa di fornire regole argomentative generali (per non dire universali). Quale effetto avrebbe questa rinuncia sulla filosofia, tradizionalmente considerata come scienza del generale e come tale contrapposta alle scienze del particolare?

Se la filosofia ancora si fa consapevole portatrice del compito socratico di ricerca e di indagine, se ancora ritiene che il filosofo debba argomentare con ragioni a sostegno delle proprie affermazioni, se ancora crede che vi siano regole condivise che disciplinano la discussione e la valutazione di tesi contrapposte, allora si trova di fronte alla necessità di definire regole, ragioni e magari di svelare se e in che misura esse presuppongano un concetto di razionalità argomentativa.

Tutti gli ambiti della filosofia sono potenzialmente coinvolti in questo dibattito, in primis la logica, che si trova a ridefinire il proprio ruolo in una dimensione dialogica, dialettica e interrogativa e a interrogarsi sui presupposti di una concezione democratica e intersoggettiva della conoscenza.

Paola Cantù, dottore di ricerca in Filosofia della scienza all’Università di Genova, svolge attività di ricerca in storia della logica presso l’Università degli Studi di Milano. È autrice del volume Giuseppe Veronese e i fondamenti della geometria (Unicopli, Milano 1999).

Dibattito

Data: 22.06.2013

Autore: Adriano Tango

Oggetto: Un colpo di rasoio

Lo scambio vedo si fa rapido ed anche se non intendevo aggiungere contributi essendo colpevole per aver perso dell’ultima serata parte dell’esposizione mi sento chiamato in causa dai commenti e posizioni già comparse, tanto per cambiare stimolato in particolare dall’ultima dell’amico Piero Carelli.

Mi sembra sia emersa una certa apprensione data dal dubbio che la disquisizione filosofica possa risentire di metodi espositivi mutuati, a mio avviso, anticipo, da altre branche della comunicazione.

Chiarirei prima quindi i ruoli specifici.

Il filosofo, ciò intendendo chiunque pensi speculativamente, lo fa per se, non per altri.

Nel ricercare la propria posizione rispetto alla realtà percepibile o ideare ipotesi coerenti su quanto “ineffabile” nel momento in cui non accetta le verità preconfezionate, si attende un unico premio: l’appagamento sia pur temporaneo, temporaneo perché legato a quello specifico suo momento evolutivo e quindi specifica esigenza di chiarezza, del tutto personale.

Non ha bisogno quindi di argomentare, né di addurre con se stesso argomentazioni artificiose.

Non ha interesse a portare altri su strade diverse, perché non necessita di seguito.

E’ quindi una questione di diversità di ruoli di diversi tipi di trasmissione del pensiero.

Perché allora il dibattito?

Fare pensiero tuttavia in una società dà obbligo di trasmissione.

Obbligo di trasmissione perché?

Ciò perché in quanto animali sociali (pensiero greco classico personalmente condiviso) interdipendendo consideriamo patrimonio comune anche le risorse ideologiche.

L’esperienza in etologia della comunicazione di un nuovo espediente scoperto fra altre specie animali che così “fanno cultura” ne è la dimostrazione.

Certo, si dirà, certe posizioni personali se condivise diventano ideologie con ricadute nel pratico.

In altri termini la realtà percepibile di cui parlavo, è vero, comprende e massimalmente i nostri simili ed i reciproci rapporti, quindi la filosofia stessa è di fatto scienza della regolamentazione di rapporti.

Quindi ciò ci allontanerebbe dalla filosofia pura, almeno vista come qui la intendo, per farci addentrare in altre branche quali l’etica, la politica etc. in cui si trasfonde il pensiero filosofico.

Rispondo che questo modello di “pluripensatore” è contemporaneo al tempo in cui il filosofo era simultaneamente matematico, geometra, musicista, guaritore e tant’altro.

E’ una buona occasione per la ridefinizione del ruolo (scusami Piero, la E accentata non ho ancora imparato a farla).

Comprendo che il mio modello di uomo che pensa è contrario a quelli classici di filosofi storici, che ampiamente sono entrati in ipotesi di tipo sociologico, politico, bioetico, ma penso lì stia l’equivoco.Il filosofo analizza le cause ed ipotizza gli sviluppi di certi comportamenti degli individui e delle comunità, non necessariamente umani ed umane, non dovrebbe far proposte.

Il suo ruolo è di accoglienza e non di azione.

Il suo pensiero al massimo può essere lanciato lontano da se, come un giavellotto, per poi andare a controllare le possibili implicazioni di un’ipotesi e la sua coerenza con l’esperienza vissuta, non per suggerire, ma per ricontrollare l’idea di base nelle ricadute pratiche.

In quanto a coerenza poi il secondo strumento di controllo.

Non avrei troppa paura che abili castelli di ipotesi e deduzioni possano portare chi le formula stesso e magari in primis ne è affascinato su falsi binari.

Il controllo è semplice: il vecchio colpo di rasoio di Guglielmo da Occam.

Il risultato della costruzione logica deve essere coerente perché le cose sono proprio ciò che sembrano, almeno nell’ambito dell’esperienza diretta, con buona pace di tante diatribe bioetiche.

Oh ….., mi scuso, stavo infrangendo la mia stessa regola, imperdonabile!

Data: 22.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Chi ha paura della logica?

Raccolgo l’invito di Tiziano Guerini: proprio di verità, poco oltre, vorrei parlare.

Non è forse tempo perso guardarsi intorno per verificare chi, tra chi fa filosofia, reputa la logica materia degna di attenzione. Tra le molte dicotomie che infestano il dizionario dei concetti filosofici, ve n’è una che bipartisce lo stesso popolo dei filosofi, assurta per qualcuno a vera e propria regola paradigmatica di classificazione intellettuale dei pensatori del ‘900. Come spesso accade nei casi di catalogazioni vaghe e un po’ arbitrarie, è fatta più di eccezioni che di regole. Mi riferisco alla ormai vecchia diatriba fra “analitici” e “continentali”. Secondo chi la sostiene, trattasi di due mondi semi-impermeabili l’un l’altro, spesso conflittuali, diversi per atteggiamento verso il mondo, diversi nel modo di attaccare i problemi e – come lascia intendere la stessa terminologia – perfino distinguibili per provenienza geografica. Da una parte gli eredi di Hegel, Husserl o Heidegger – “continentali” - impegnati a produrre sistemazioni metafisiche quando non divagazioni poetiche, fini giocolieri della parola e spesso critici sospettosi della scienza con i suoi oggettivismi. Dall’altra figli e nipoti di Frege e Russell, convinti che la filosofia consista sostanzialmente in un’attività di smascheramento di nonsensi e sofismi; un lavorìo a volte estenuante di precisazione dei contorni di particolari oggetti e concetti, dei limiti epistemici e delle operazioni che li riguardano; la convinzione che qualunque speculazione debba passare attraverso l’analisi del linguaggio che la sostiene, pena sconfinamento nella metafisica (che per qualcuno è una vera e propria parolaccia, di quelle che si proibiscono ai bambini); infine, l’assegnazione di un ruolo fondante, o comunque cruciale, alla logica. Wittgenstein dedicò una riflessione parossistica alle forme logiche del linguaggio, ed i suoi epigoni produssero armamentari tecnici la cui padronanza richiede un pesante studio preparatorio ed una pazienza infinita, per conseguire spesso risultati dubbi e di portata limitata (vedi un Carnap); altre volte, invece, il pionierismo di un Tarski o di un Gödel hanno permesso di conseguire risultati grandiosi, in grado di influenzare anche il “campo avverso”. La presunta guerra tra le due fazioni, che da una distinzione puramente tecnica riesce a sconfinare in contrapposizione ideologica – azzarderei pragmatismo anglosassone vs. storicismo continentale, e per i meno raffinati America muscolosa vs. Europa “dialogante” – è smentita dalla presenza di una folta schiera di pensatori non allineati e trasversali, a conferma – se ce ne fosse bisogno – che certe classificazioni vanno prese con le molle. Tuttavia, tale giustapposizione conserva una certa fecondità, se come ago della bilancia si considera proprio il grado di considerazione riservato alla logica da parte di chi fa filosofia. Sempre con tutte le cautele del caso, pare che sia il partito “analitico” a tenere le tecniche logiche in maggiore considerazione, forse proprio per la concezione di “filosofia” che esso conserva, indubbiamente più modesta e circoscritta rispetto a quella del partito avversario, che invece – anche qui, generalmente parlando – fa propria una visione più totalizzante, universalistica e speculativa del pensiero, senza indulgere generalmente in tecnicismi formali.

Fin qui, nulla di nuovo. E non è certo originale scrivere che vi è buona e cattiva filosofia indipendentemente dall’etichetta che qualcuno vi ha appiccicato per esigenze manualistiche. Tuttavia – ed è qui che chi scrive comincia a “prendere partito” – mi pare difficilmente negabile che non esiste buona filosofia che faccia a pezzi la logica, e non è un buon filosofo chi riempie i propri lavori di fallacie – formali, semantiche – mascherandole dietro gerghi roboanti o concettualizzazioni affascinanti ma sfuggenti. A questo vincolo non può sottrarsi nessuno che voglia esercitare la ragione, a dire il vero non solo i pensatori di professione, ma anche l’uomo “della strada”, durante le sue normali attività comunicative e transazioni sociali. Se di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, è altrettanto importante dire chiaramente ciò che si vuol dire (en passant, aggiungerei che purtroppo anche l’autore del Tractatus predicò bene ma razzolò male, non solo per la chiarezza, ma anche perché ci viene detto dopo una sequela irritante di proposizioni criptiche che tutto quello che precede è indicibile. E’ genio o turlupinatura? Non l’ho mai capito. Come si intuisce anche tra gli “analitici” c’è del misticismo – ammesso che Wittgenstein sia un analitico, come a prima vista si direbbe). Dire chiaramente ciò che si vuol dire, dunque, e farlo senza pseudoargomentazioni. Ebbene, apriamo un manuale di logica, e ciò che ci troviamo davanti – al di là della strumentazione formale - è in massima parte un paradigma bivalente per ciò che riguarda un venerabile concetto filosofico, quello di verità (a dire il vero esistono logiche non bivalenti, ma sono curiosità esotiche; mi guardo bene dal prenderle sottogamba, perché la storia delle idee è piena di presunte stranezze inutili che poi si sarebbero rivelate enormemente feconde). Una sana e robusta argomentazione ruota intorno ai poli di vero e falso per giungere ad una conclusione che gonfia il nostro petto di una gioia spinoziana, ragionevolmente convinti della “bontà” di ciò che siamo andati sviluppando. Abbiamo fatto uso di un insieme di dati di fatto, una batteria generalmente non molto contorta di deduzioni, qualche induzione probabilistica, conclusioni tratte da altri generalmente accettate e usate come premesse intermedie, e naturalmente rocce intoccabili come il principio di non contraddizione. Già qui si potrebbero forse levare voci di disappunto ed intricati problemi che farebbero magari cadere uno ad uno gli elementi che sopra ho indicato, ma mi sia lasciato lo spazio per concludere. Credo che l’elemento più controverso tra quelli menzionati sia quello che sopra ho indicato come fatto. Non sono così pazzo da addentrarmi nella disquisizione su cosa sia un fatto in filosofia, ma per i miei modesti scopi è sufficiente considerare quello che il senso comune accetta come tale: un avvenimento o relazione fra entità che è suscettibile di controllo, all’interno di un impianto metafisico assimilabile all’etichetta di realismo (esiste un mondo là fuori, indipendente dalla nostra percezione di esso). Fin qui, obiezioni accademiche a parte, non credo di essere lontano dall’idea che la gran parte di noi ha circa la razionalità. Ma voglio ora prendere spunto da una recente pubblicazione che contesta proprio il presunto “realismo” obiettivistico che fa da sfondo alla concezione di cui sopra.

Uno dei libri di Reset intitolato Il bello del relativismo sostiene già nell’introduzione che è proprio il paradigma che viene chiamato “realismo”, o meglio “oggettivismo” quello definitivamente in crisi, nella nostra epoca postmoderna e secolarizzata. Viene dato per scontato, dicendoci che “non si torna indietro”, che ormai non esiste verità al di fuori dei limiti del linguaggio (Wittgenstein: un “analitico”?), che l’essere non è ma accade (Vattimo), che non esistono fatti ma solo interpretazioni (Nietzsche), che le vecchie distinzioni analitico / sintetico e riduzione ai dati di fatto sono ormai insostenibili (Quine: un altro “analitico”), e molto altro, tutto estrapolato da territori magari distanti ma presuntamente convergenti verso una distruzione di quel preteso oggettivismo a cui oggi non dovrebbe più credere nessuno. Naturalmente percorre tutto il libretto la sottile ironia distruttiva di chi la sa lunga, e si guarda ai vecchi dinosauri ancorati alla verità come corrispondenza con i fatti come dei fossili estinti senza saperlo. A sostegno di questa impostazione vengono chiamati in causa diversi pensatori, presunti “analitici” e “continentali” dei quali si considerano solo i pezzi incastrabili nel disegno precostituito, producendo molta pars destruens e ben poche proposte costruttive, come in tutte le filosofie scettico – relativistiche. Ma la questione che più mi preme qui è proprio quella critica dell’“oggettivismo” che farebbe parte di un vecchio discorso che, nonostante la presunta “scientificità” degli assunti di fondo, sarebbe in realtà già superato dall’ermeneutica. Assieme al depotenziamento ontologico, se ne va anche la classica concezione di verità, ed assieme a questa - temo con un brivido lungo la schiena - anche la solidità delle nostre argomentazioni. E allora addio alla ragione e alla filosofia: anything goes. Già la difficoltà nell’attuare una buona pars construens nelle deboli filosofie del postmoderno le fa apparire come sospette, impegnate a demolire i presunti racconti totalizzanti senza saper offrire un’alternativa valida. In questo hanno un’affinità strutturale con la filosofia analitica del linguaggio, ma almeno quest’ultima si limita alla critica di questioni circoscritte senza avere la pretesa di perlustrare territori eterei finendo col creare un’altra metafisica nonostante le intenzioni. Se la filosofia analitica ha un pregio, è quello di portare una boccata d’aria fresca tra le esplosioni speculative di certa metafisica selvaggia, usando la logica come strumento razionale (nonostante le numerose eccezioni); ora ci viene detto, rivisitando verità, falsità e loro condizioni di verifica, che i fatti sono solo questione di interpretazione, e la filosofia che ha fiducia nei fatti e nella tecnica che fa leva su di essi avrebbe una vocazione totalitaria. Io penso esattamente il contrario: una filosofia che non sa più distinguere il vero dal falso è una porta aperta alla barbarie, perché perde gli strumenti per opporre la ragione contro di essa. Probabilmente il Giorello della situazione mi bacchetterebbe stizzito ricordandomi che tutti i manuali di filosofia della scienza non parlano di fatti senza delineare un complesso di teorie che fanno da cornice interpretativa, e che nello scegliere dei fatti se ne trascurano sempre degli altri, o che la meccanica quantistica rivolta come un guanto proprio la logica binaria, e molto altro ancora; ma questo non ha nulla a che vedere con la critica che sto cercando faticosamente di enucleare. Ciò che voglio dire è che nessun intellettuale onesto, impregnato di spirito scientifico in senso lato, si rifiuterà mai di mettere alla prova le proprie teorie su un terreno intersoggettivo e controllabile, e di testarne la fecondità senza aggiustamenti ad hoc; e, last but not least, cercare la verità in modo argomentativo e dialogico non vuol dire aver la certezza di trovarla, ma nemmeno negarne l’esistenza. Dopo quel depotenziamento relativistico non sapremmo più come rispondere a chi fa leva sulla fragilità ontologica del fatto per giustificare tesi aberranti, stupri della storia, interpretazioni “alternative” a volte rasenti l’assurdo, fino a veri e propri crimini intellettuali come le varie specie di negazionismo: tutti obbrobri che nascono dall’incapacità più o meno cosciente di argomentare, ulteriormente degradata dalla scarsa considerazione per la realtà dei fatti alimentata dall’ideologia. Che il fatto sia un’entità quasi sempre avvolta nella nebbia non ci solleva dall’onere della prova: purtroppo, invece di potenziare gli strumenti di indagine, si nega la realtà dell’oggetto di indagine (la sua consistenza ontologica). Questo non è un passo avanti: è l’abdicazione della filosofia, che come già insegnavano in Grecia è ricerca della verità, non del linguaggio oracolare sciorinato per stupire il lettore.

Naturalmente tutto ciò è solo una sensazione, un’intuizione, una presa di posizione criticabile in tutto o in parte che deriva dalla personale sensibilità, che anche per formazione ha profondo rispetto della mentalità scientifica e guarda con sospetto chi con sospetto guarda alla scienza. Ma vale la pena guardarsi intorno per verificare chi, con argomentazioni discutibili, parla di bancarotta della scienza non rendendosi conto che ha fatto molto di più per l’umanità l’invenzione della lavatrice – possibile con l’asfittica filosofia della ripetibilità dell’esperimento, del controllo empirico delle teorie e della loro coerenza formale – piuttosto che le fumosità del pensiero ermeneutico - decostruzionista - postqualcosa, ultima moda intellettuale che appare come la reazione raffinata di chi trova che scienza e tecnica siano attività per cervelli quadrati che aspirano solo a piegare l’uomo e la natura al proprio istinto dominatore.

Data: 22.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: A DIVIDERE SONO LE PROCEDURE ARGOMENTATIVE O I PRESUPPOSTI?

Grazie, Paola: non solo hai conquistato il pubblico su un tema così impegnativo, ma sei stata bravissima anche a stimolarlo. Se guardiamo all’efficacia, il tuo è stato un discorso da “retore”. Non so se abbiano inciso di più le tue doti “naturali” (il timbro della voce, la chiarezza espressiva, la dolcezza comunicativa) o le tue “tecniche” di persuasione: propendo per le prime.

Le mie reazioni al tema che hai esposto così efficacemente? Provo a scrivere qualche impressione (che richiederebbe, tuttavia, ben altro sviluppo).

Retorica e regole dell’argomentare: siamo in presenza di due “arti” o procedure separate o tra loro correlate? Se correlate, sono le regole dell’argomentare il “mezzo” funzionale al fine che è la “persuasione”?

Retorica e politica

Pensiamo alla politica. In una democrazia si “vince” se si “convince”. Per convincere, naturalmente, bisognerebbe portare delle “ragioni”. Quali le ragioni più funzionali a persuadere un elettore medio? Ragioni che puntano alla… razionalità dell’interlocutore o ai suoi “interessi” (legittimi) o, magari, alle sue paure? Ragioni che tendono ad argomentare le proprie tesi o a demonizzare l’avversario? Ogni “mezzo” in politica è “buono” se riesce a conseguire il fine del consenso: anche gli insulti, anche l’intercettazione degli umori più viscerali, anche l’evocazione di scenari apocalittici. Ma… i nipotini di Rousseau e seguaci si domandano: non è l’interesse “generale” l’obiettivo di quell’arte nobile che è la politica? Già, ma qual è l’interesse “generale”? I politici eletti rappresentano precisi interessi di parte, interessi che, però, loro tendono a spacciare per interesse generale. Chi mai dichiara di rappresentare gli interessi dei taxisti, dei farmacisti, dei notai, delle coop? Ovviamente nessuno. Perché, allora, i pur timidi tentativi del governo attuale di abbattere una serie di privilegi in nome dell’interesse di tutti i consumatori ha scatenato larga parte dell’opposizione? È legittimo che le categorie colpite protestino, ma è legittimo che i politici cavalchino la tigre di proteste corporative?

Ma… si tratta proprio di proteste corporative? Non siamo di fronte a “lavoratori” (taxisti) che sudano per guadagnare – come tutti – la pagnotta quotidiana? Che cosa sono i loro privilegi di fronte a quelli dei grandi evasori o degli stessi parlamentari (ed europarlamentari italiani)? E nella protesta dei farmacisti non vi è la nobile battaglia della “salute dei cittadini” (non è questo un interesse “generale”?) contro gli interessi corporativi delle potenti coop e multinazionali del settore della grande distribuzione? Non è una cosa nobile, poi, difendere categorie che, altrimenti – senza alcun padrino politico – potrebbero scatenare proteste violente?

Già, dov’è la distinzione tra interessi “corporativi” e interesse “generale”? I sofisti parlavano di discorsi duplici: ogni argomento può essere affrontato in un modo o nel modo opposto. Vi è, davvero, un modo di vedere un argomento dal punto di vista dell’utile generale?

Retorica, relativismo: è questo lo scenario della politica. Ed è all’interno di questa cornice che hanno senso le “ragioni”, le “argomentazioni”. Una cornice che – a determinati livelli – si arricchisce della componente della “mediazione”: una paziente mediazione di punti di vista (interessi?) tra le varie anime di una coalizione, all’interno di una commissione parlamentare, nell’Aula del parlamento…

Retorica e letteratura

Lo scenario muta se cambiamo ambito? La retorica domina anche nella stessa letteratura: non siamo di fronte a una serie di tecniche tese a creare effetti speciali (dalla suspence allo stupore)? Che cos’è Dan Brown se non uno straordinario “retore” che non solo riesce a costringerti a tenere il fiato sospeso per due giorni, ma a convincerti che è vero ciò che vero non è? Non è tutta la letteratura un monumento alla “potenza della parola” teorizzata dal retore-sofista Gorgia?

Retorica e filosofia

C’è qualche ambito in cui la retorica non trionfa? In filosofia, forse? L’utopia di Cartesio, Spinoza, Leibniz & C. – il sogno cioè di costruire un sapere vero, condiviso da tutti, fondato tramite le regole argomentative “cogenti” (rubo l’aggettivo all’amico giudice Antonio Ferrari) della geometria su premesse “evidenti” – è clamorosamente fallita. In assenza, allora, di una verità che si impone a tutti per la sua autoevidenza, i filosofi non sono diventati dei “retori” che cercano di convincere più interlocutori possibili della “forza” delle loro “opinioni”? Ora, che cosa dà “forza” alle loro opinioni? Davvero il rigore argomentativo? I filosofi conoscono ed applicano bene le regole dell’argomentare rigoroso, ma perché questo, spesso, non consente loro neppure di “dialogare”? Prendiamo in considerazione un filosofo “forte” qual è Emanuele Severino. “Mostruosa” la sua logica, unica la sua potenza argomentativa: a confronto con il suo “rigore geometrico”, le argomentazioni degli altri sembrano... chiacchiere. Eppure non convince. Paradossalmente possiamo dire che “affascina” (si legga, per curiosità, almeno una pagina di una delle sue pubblicazioni edite dall’Adephi), ma non “persuade”. E non persuade non perché afferma tesi… inaudite, ma perché tutto il suo “sublime teorema” si fonda su… postulati che altri non considerano per nulla “evidenti”, ma solo costruzioni linguistiche.

Non sono sempre i “presupposti” (una diversa “interpretazione” dei “dati” scientifici, il background filosofico o religioso) la fonte delle diatribe in bioetica?

Per trovare deduzioni rigorose da premesse evidenti, “l’argomentare veritativo e non solo persuasivo” (per rubare un’espressione dell’amico Tiziano Guerini) dobbiamo volare nell’Olimpo della matematica? Forse, no: non siamo in presenza, anche qui, di semplici “coerenze logiche” che hanno valore solo per chi condivide i postulati di partenza?

A dividere, allora, più che il rigore dimostrativo, non sono i “punti di partenza”? Se sì, siamo destinati a convivere con “linguaggi” che non comunicano tra loro, oppure si può sperare che, almeno in alcuni ambiti che hanno più a che fare con i dati sperimentali - mi riferisco, in particolare, alla bioetica -, si possa arrivare, con maggiore attenzione ai “presupposti”, a conclusioni più condivise?

Crema, 18 settembre 2006

Data: 22.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: AGLI AMICI DEL CAFFE’ FILOSOFICO

Dopo aver ringraziato la prof. Paola Cantù per la stimolante e chiara relazione, sento anche il bisogno di rilanciare con provocazione il dibattito, augurandomi ulteriori prese di posizione che amplino e definiscano il nostro argomentare anche oltre il confronto diretto.


Argomentare: fra logica formale e dialettica, cioè fra proposizioni analitiche a priori, come dice Kant, e discussione finalizzata ad ottenere il consenso, con tutti i mezzi, leciti e anche illeciti, sempre che si abbia l’accortezza, o la furbizia, di non farsi scoprire. In più intersoggettività e analisi del “contesto”, come essenziali elementi aggiuntivi. Certo argomentare è tutto questo, implica tutto questo: ma… e la verità? Una verità che sia non formale ma di vero spessore conoscitivo: l’argomentare veritativo e non solo persuasivo ( se n’è accennato in relazione). Cos’è la verità? ce ne laviamo le mani? Fare filosofia significa non lasciare in sospeso nessun conto, anche rispetto a cose “evidenti” o a cose “accattivanti”: si parla di “divenire”, si parla di libertà, di amore … e nessuno osa più ridiscuterle, queste cose. Sono considerate scontate, ovvie, di per sé buone. Ripeto: la filosofia è il coraggio di discutere anche, e soprattutto, le cose ovvie fino alla (apparente) banalità; come anche e sopratutto le cose considerate eticamente indiscutibili. Argomentare ciò che nessuno argomenta più: questa è la filosofia. Che tutto “passi”, “trascorra”… come ci mostra l’esperienza sensibile, è proprio così ovvio? Che la libertà – presupposto di ogni argomentare – definisca i nostri comportamenti, è proprio cosa così ovvia? Che l’amore, come risultato di una volontà positiva, – verso le cose (la natura) e verso gli uomini – sia il punto d’arrivo e di soluzione di tutti i problemi, è proprio così ovvio? Che la guerra sia meglio della pace, oppure che la pace sia – nel contesto storico-culturale occidentale ( per non essere equivocato cfr. U.Galimberti, Parole nomadi, ed. Feltrinelli alla voce “guerra”) – solo un’altra forma più sottile ( e quindi più violenta) di fare la guerra, sono cose che non meritano discussione? Credo di si, e nel profondo. Occorre riconsiderare ogni presupposto, senza per questo cadere in nuovi presupposti; occorre saper ri-conoscere e ri-dire una parola definitiva e originale che non sia “umana” ma filosoficamente, e quindi laicamente, sacra e divina.

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