OLTRE L'OCCIDENTE? IL “PENSARE” AFRICANO - RELATORE: DON AGOSTINO CANTONI

13.12.2004 21:00

 

L’argomento si può affrontare sotto un profilo storico-religioso, storico-politico e storico-filosofico. Trattandosi di un Caffè Filosofico, si porrà attenzione in modo particolare all’aspetto storico-filosofico.

 

La prima riflessione da fare, detto con Heidegger, è la seguente: “La filosofia è un fenomeno tipicamente greco, ogni applicazione è analogica”. Quindi non possiamo giudicare il pensare africano con le categorie occidentali. L’underground storico-culturale è assolutamente diverso rispetto al nostro.
Due esempi.
Senghor: “L’émotion est nègre comme la raison est hellène”.
- Cogito ergo sum - Danzo la vita, dunque sono”.
In secondo luogo, ciò che risulta dal primo mezzo secolo di pensiero africano è il tentativo di storicizzare il Muntu, la persona, la personalità, lo spirito del vissuto africano, un vissuto che ha le caratteristiche del pensiero aurorale, del dialogo socratico, della meraviglia originaria.

 

 

Apollo o Dioniso? La forma razionale o i rigurgiti del vissuto?

Ha vinto l’apollineo, sicché il pensiero occidentale si è sviluppato sotto la tirannide della ragione nelle forme più svariate, sicché le stesse filosofie del vissuto, quali vitalismo di Nietzsche, l’action di Blondel, l’élan vital di Bergson, si collocano dentro la logica della metafisica dell’essere, pur contestandola nella sua identificazione.

Con un po’ di presunzione Heidegger ha scritto: "La filosofia è un fenomeno tipicamente greco, ogni applicazione è analogica". Invece c’è un pensare, un filosofare che è originariamente "altro" rispetto a quello greco: non solo è diverso l’underground storico-culturale, ma è radicalmente altro la visione della realtà, sicché Senghor ha potuto scrivere: "L’émotion est nègre comme la raion est hellène", sicché là dove noi diciamo "cogito, ergo sum", l’africano dice "danzo la vita, dunque sono".

Se parlo di "pensare" africano, invece che di "pensiero" africano è per tentare di prendere le distanze rispetto al pensiero filosofico di matrice metafisica universale. Anche nel pensare africano c’è una visione universale della realtà, ma si tratta di un universale concreto qualificato come etieth, forza vitale, è un vissuto, non un essere.


La seconda riflessione riguarda il fatto che, pur essendo l’Africa il continente più antico abitato dall’uomo, la documentazione scritta del pensare africano in lingua accessibile all’Occidente è recentissima, poco più di cinquant’anni di ricerche sui mille dialetti tribali e, quindi, su una miniera sapienziale di saggezza popolare contenuta in miti, racconti, proverbi e riti religiosi, un materiale di ricerca complesso per l’etnologia e per la filosofia.


La terza osservazione riguarda la storia della recentissima ricerca filosofica africana; poco più dell’ultimo mezzo secolo.

Come spesso succede, c’è un primo sasso che, scagliato nello stagno, mette in agitazione le acque. Così avvenne che nel 1945 Tempels, un francescano belga, missionario presso le tribù bantù del Congo, sub-Sahara equatoriale, constatato il fallimento della evangelizzazione, per capire le motivazioni dell’insuccesso, cercò di penetrare nel mondo originario di quelle tribù, studiando i dialetti e i costumi dei vari clan, mettendoli a confronto fra loro. Si persuase che fosse "un crimine contro l’educazione spogliare i popoli del patrimonio proprio, unico punto di partenza per una civilizzazione ulteriore".

Sulla base di uno studio comparativo delle lingue delle varie tribù e del materiale narrativo(miti, proverbi, racconti, leggende, riti, preghiere) Tempels formula la seguente ipotesi: esiste un’ontologia completa dei Bantù, una concezione della vita basata su un solo valore: la "forza vitale" o energia prima, etieth.

"La forza, la vita possente, l’energia vitale sono l’oggetto delle preghiere e delle invocazioni a Dio, agli spiriti e ai defunti, come di tutto ciò che si suole chiamare magia. Essi dicono di rivolgersi al "divino" per apprendere parole di vita che insegnino a rafforzare la vita. In ogni lingua bantù si scoprono parole o locuzioni che designano una forza che non è esclusivamente corporale, ma totalmente umana. Essi parlano della forza di tutto il nostro essere, di tutta la nostra vita, usano parole che designano l’integrità dell’essere. Il bwanga o rimedio magico, non è in primo luogo un rimedio terapeutico, ma rafforza direttamente la forza vitale, l’essere stesso. Invocando Dio, gli spiriti o i mani, essi domandano soprattutto di fiorire in forza. Ciò che noi chiamiamo magia, ai loro occhi è la posa in opera di forze naturali messe da Dio a disposizione dell’uomo per rafforzare la vita umana…".

Il libro di Tempels suscita una tempesta di riflessioni critiche, contro o a favore, che però non emergono immediatamente perché il problema urgente è il risveglio della coscienza politica che, nella seconda parte del XX secolo, portò i popoli dell’Africa alla liberazione dalla dipendenza coloniale: il che fece sì che alcuni uomini promotori della cultura africana sentissero come più urgente, più che il pensare, l’operare in campo politico-sociale. Nacque il movimento della Negritudine ad opera di intellettuali africani che, in contrapposizione ai bianchi colonizzatori, fanno emergere la coscienza dei valori culturali e religiosi propri degli africani.

Il padre della Negritudine è Leopold Sédar Senghor. In un discorso all’Università di Oxford, 1951, così spiega la Negritudine: "E’ l’insieme dei valori culturali, economici, sociali, politici che caratterizzano la civiltà dell’Africa nera. Essenzialmente èla ragione istintiva che pervade tutti questi valori: ragione istintiva nel senso di intuizione, espressa in sensazioni emotive, in sentimenti mediante gli archetipi presenti nell’immaginario collettivo, in particolare mediante il mito primordiale collegato alle immagini del cosmo… I tratti caratteristici della negritudine sono il senso di comunione, i doni innati dell’immaginazione, del ritmo, ecc., che troviamo come un marchio indelebile in tutte le opere e le attività dei neri". Senghor pone come assolutamente africani l’emozione, il senso del ritmo in opposizione alla fragilità della razionalità occidentale.

Altri due esponenti della Negritudine sono: Aimé Césaire, poeta e uomo di cultura, autore del termine "negritude", propone un ritorno alle sorgenti, recuperando il valore dei dialetti e delle lingue tribali, "per liberare il demiurgo che è l’unico capace di organizzare il caos in una sintesi nuova che sia riconciliazione e superamento sia del vecchio che del nuovo"; Julius Nyerere, promotore di un umanesimo socialista, caratterizzato dalla condivisione dei beni (Il socialismo europeo è impensabile senza il capitalismo e la lotta di classe, quello africano è fondato sul progetto di una famiglia allargata: la società è vista come una estensione dell’unità famigliare); il socialismo di Kuame Nkruma si chiama Coscientismo: "la rivoluzione sociale deve avere ben salda alle sue spalle una rivoluzione intellettuale orientata alla redenzione della società", secondo un proverbio del Madagascar "Se si è in tanti, è possibile attraversare il fiume senza essere mangiati dal coccodrillo":


Sulla scia del socialismo africano si sviluppa la corrente dell’umanesimo africano o della personalità africana con Kenneth D. Kaunda, primo presidente dello Zambia, politico e intellettuale: "è umanista chi lotta per il benessere e la dignità della persona umana, non basta opporsi al capitalismo, occorre recuperare i valori della concezione africana dell’uomo che sono la solidarietà, l’ospitalità, il mutuo soccorso, la fratellanza. La società africana è sempre centrata sulla realtà del vissuto, sulla comunità e sull’uomo. L’africano sperimenta la vita piuttosto che domandarsi che cosa essa sia. Nell’africano la ragione e il sentimento, ciò che è naturale e ciò che è sovrannaturale trovano una sintesi ". Quello di Kaunda è un umanesimo cristiano: "chi ama gli uomini partecipa alla vita stessa di Dio che è Amore… Quando l’uomo impara che l’unica speranza di pace e di felicità per il mondo è dare espressione politica all’amore per gli altri, possiamo dire di essere entrati non nel Regno dell’uomo ma nel Regno di Dio".


Sotto la spinta degli uomini della negritudine a ricercare l’identità dell’essere africano, negli anni ’70, alcuni uomini di cultura, rifacendosi a Tempels o in polemica con lui, mettono per iscritto racconti, proverbi, danze e favole, tutti strumenti per trasmettere la cultura tradizionale africana: - John S. Mbiti, pastore anglicano africano, per sottolineare che "la religione permea tutti gli aspetti della vita così strettamente che non è possibile isolarla dal resto: la religione è l’elemento più forte del background tradizionale africano ed è quello che probabilmente esercita più influenza di tutti sul modo di pensare e di vivere delle persone interessate, sicché si deve stabilire che dovunque c’è africano, c’è religione; non esiste distinzione fra sacro e profano ed è impossibile che qualcuno si converta da una religione ad un’altra". Altri autori africani si interessano del "linguaggio come luogo dove nasce la filosofia come ricerca di senso". Alexis Kagamé in Philosophie bantou comparée (1976), prende in esame un certo numero di lingue bantù e, con metodologia occidentale, analizza la logica formale presente nelle espressioni, la criteriologia e l’ontologia, il problema dell’esistenza e degli attributi di Dio ; rimprovera a Tempels di aver generalizzato la ricerca condotta su un’area precisa dei Bantu. A. G. Bello, Philosophie and African Language (1987), esamina il legame fra lingua e scrittura: la scrittura è metafora della parola e la parola è metafora del pensiero, sicché la lingua può essere usata per esprimere il pensiero e fissare il pensiero di un popolo. – L’Etnofilosofia (etnologia=studio dei gruppi umani; etrnofilosofia=interpretazione della realtà storica dei gruppi umani e dei loro pensieri) tratta il problema della filosofia africana come una forma di "sapienza popolare", di "sapienza collettiva". Così Houndtundji in Che cos’è la filosofia (1987) e Eboussi Boulaga La crisie du Muntu (1977) e Laléyé Pourquoi la philosophie en Afrique (1973) e Elias Ngoenha Das Independencias à libertades (1993). – Henri Maurier Philosophie de l’Afrique noire (1985) (esiste la possibilità di una filosofia africana unitaria, fatta da africani, con lo stesso fondamento di valori tradizionali e di esperienza; il ruolo specifico di ogni filosofo è di dare un contributo al sapere universale); Odera Oruka, in La Sage Philosophie (1991), sul tema dell’esistenza o meno di una filosofia africana, propone di intervistare i saggi del villaggio che trasmettono alle generazioni future i valori della tradizione e della vita; Ruch-Anyanwu, African Philosophy (1984): per Ruch vero filosofo del pensiero africano è chi fa un’analisi critica del sistema mitico africano indifferentemente dalla sua provenienza culturale e senza limiti di ricerca, ma l’ultima parola sulla creazione di una filosofia africana spetta agli africani; per Anyanwu la filosofia africana è una filosofia della collettività connotata da una conoscenza criticamente riflessa fondata sull’esperienza religiosa, che non esclude la razionalità, secondo la quale la forza vitale permea tutto l’universo, sia la materia che lo spirito coabitano, coesistono nell’unica forza: tutto esiste in Dio (Anyanwu giunge alla stessa conclusione di Tempels).


Le ultime ricerche sul pensare africano sono Il pensare africano come vitalogia di M. Nkafu-Nkemnkia, del Camerun, secondo il quale la filosofia africana è vitalogia, che equivale alla forza vitale di Tempels.

 

Mi soffermo su un saggio del 2001 di Filomeno Lopes, Filosofia intorno al fuoco, il pensiero africano contemporaneo tra memoria e futuro. "Palabre e filodrammatica" è la prospettiva da cui legge la filosofia africana lusitana. In sintesi:

La realtà dei paesi africani lusofoni è quella del mendicante Lazzaro della parabola evangelica: luogo degli indigenti, massacro di sangue fraterno, neocolonialismo, arroganza intellettuale ed esperienziale.

Ogni anziano che muore è una biblioteca che brucia (i valori culturali della tradizione).

La verità è sinfonica. Un apologo racconta che ogni mattina la gazzella si sveglia sapendo che deve correre più veloce del leone per evitare la morte. Così ogni mattina il leone si sveglia sapendo che deve correre più veloce della gazzella per conquistare un pasto. Ora, si dice che giunti alla sera della vita i due animali ebbero una rivelazione: il richiamo della verità non è monocorde, ma sinfonico, sicché decisero di deporre le armi. E composero un inno solenne di fronte all’assemblea degli esseri umani, per celebrare il trionfo dell’intercultura, che è una questione di sinfonia antropo-cosmica: la molteplicità degli strumenti armonizzati tra loro. La riflessione filosofica africana, orientata alla comunicazione, ha il dovere di far riflettere sulla propria coscienza storica, dove è centrale la relazionalità antropo-cosmica, cioè la capacità di essere in comunicazione e in comunione con altri simili. La nuova storia è essenzialmente storia ECOLOGICA dell’uomo, dove ecologia sta per relazione, interazione, dialogo di tutti gli esseri, viventi e no: natura, cultura, società. "Tutto ciò che esiste, coesiste; tutto ciò che coesiste, preesiste. E tutto ciò che preesiste e coesiste, sussiste attraverso una tela infinita di relazioni onnicomprensive. Per cui niente esiste fuori della relazione. Questa interdipendenza di tutti gli esseri (Histoire écologique de l’Homme) nega il diritto del più forte, nessuno è superfluo e marginale. Ogni essere costituisce un anello della immensa catena cosmica, fa parte di un Villaggio veramente globale, dimora autentica di tutte le creature umane. Il filosofo lusitano ha il compito di completare l’apologo, costruendo un’alternativa alla metafisica, un ontologismo fine a se stesso, avviando una riflessione filosofica che affronti i problemi reali in un’ottica antropo-cosmica: cioè consapevole che il sentiero della vita non muove dalla circonferenza al centro, ma dal centro alla periferia, il che implica una riflessione lucida sulla propria coscienza storica: liberare il villaggio globale armato (il neocolonialismo dell’Africa lusofona che ha ucciso l’esprit de finesse) indossando la tunica di un amore liberatore.


A questo scopo la riflessione filosofica africana deve recuperare innanzitutto il senso del femminile nella storia: il femminile primordiale, che è sinfonia, che è famiglia, che è esprit de finesse canalizzato. E’ l’ethos della tartaruga marina, che, appena esce dal guscio dell’uovo, sa già che il suo destino è l’oceano, non la terra arida, dove non riuscirebbe mai a comunicare autenticamente e in maniera duratura con l’esistenza.

Siamo "trinitari": padre-madre-figlio, quindi sinfonia, comunità di comunicazione, diversi, ma di una diversità sinfonica: comunione delle distinzioni. La natura trinitaria familiare – padre, madre, figlio - fa sì che l’unica forma autentica della sua realizzazione sia appunto l’amore, che non sfocia tout court nella giustizia, ma nella misericordia.

La misericordia rivela l’aspetto essenziale della natura umana e divina: esprime l’amore "viscerale" della madre per i suoi figli. La misericordia è "una giustizia con viscere materne", è commuoversi davanti al male dell’altro perché ci si sente intimamente colpiti, perciò è disposizione a essere magnanimi, clementi e indulgenti.

La giustizia di Dio è diversa da quella umana: Dio non ha un bidone dei rifiuti dove gettare i rifiuti umani. L’inferno non dovrebbe avere l’ultima parola. Possono le madri condannare il frutto delle loro viscere?


Conclusione: siamo su un altro pianeta rispetto all’Occidente? Tanto quanto dista la metafisica dell’essere dalla filosofia del vissuto, tanto quanto dista l’esprit de géometrie dall’esprit de finesse (Pascal): l’émotion est nègre comme la raion est hellène (Senghor), tanto quanto dista l’avventura millenaria della ragione dal pensiero aurorale, dalla meraviglia originaria.
 

 
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COMUNICAZIONE RIASSUNTIVA DI:

Erica Raimondi
Cl. VE
Liceo Scientifico L. Da Vinci
Crema.

 

 

L’incontro del 13-12-04 promosso dal Caffè Filosofico ha avuto come tema “Il pensare africano”. Il relatore, Don Agostino Cantoni, ha sviluppato l’argomento attraverso tre distinti momenti di riflessione:

  1. Non esiste il solo modo occidentale di fare filosofia. C’è un pensare che è sostanzialmente “altro”, c’è un conoscere Dionisiaco, non Apollineo. Senghor ci introduce ad esso attraverso una provocazione: non << cogito ergo sum>>, ma <>. Strumento di conoscenza diventa il vissuto in quanto tale, col coinvolgimento della totalità dell’uomo, non solo della sua razionalità. Anche per questa via “polifonica” si perviene ad una visione universale della realtà, ma si tratta di un universale concreto, di un incontro percepito (e non solo pensato) con “la forza vitale” che permea ed anima l’esistente.

  2. Il secondo momento di riflessione ha evidenziato la specificità della cultura africana. Essa ha radici antichissime ma fino a pochi decenni fa è stata tramandata esclusivamente per via orale. E’ una miniera sapienzale di miti, di racconti, di proverbi, di apologhi, di riti, attualmente oggetto di studio per l’etnologia e per l’etnofilosofia.

  3. Il relatore è passato poi ad un rapido excursus sulla filosofia africana dei giorni nostri. Il Tempels parla di una vera e propria ontologia dei Bantù. Essa si fonda su un solo valore: la forza vitale, che si estrinseca nell’uomo e, in modo mirabilmente armonico, in tutti gli altri aspetti della natura. Il rivolgersi al divino attraverso la preghiera apre all’uomo l’accesso alle forze naturali che provocano il fiorire della vita. Il bwanga, o magia, le chiama ad operare e a risanare.

E’ stato poi presentato il filone degli autori che si rifanno alla “negritude” cioè ai valori della cultura africana, che sa esprimere con particolare efficacia l’emozione, l’immaginazione, l’intuizione, lo stupore dell’uomo innanzi alla natura. Sono stati citati: Leopold Sedor Senghor, Aime Cesaire, Iulius Nyerere, Kuame Nkruma, Kenned D.Kuanda. Tali autori hanno anche marcati interessi socio-politici: stato=famiglia allargata=attuazione politica dei valori tradizionali di ospitalità, di solidarietà, di mutuo soccorso, di fratellanza. Solo uno stato che sa rendere operativo attraverso le sue leggi l’amore per il prossimo può dare pace e speranza di felicità all’uomo.

L’elemento essenziale del background africano è la religiosità: dove c’è un africano c’è religione. Anganw afferma che la filosofia africana è la filosofia della collettività, fondata sull’esperienza religiosa. Sia la materia che lo spirito coesistono e coabitano nell’unica forza: tutto esiste in Dio.

Il relatore si è infine soffermato su un saggio del 2001 di Filomeno Lopez “Filosofia intorno al fuoco, il pensiero africano contemporaneo tra memoria e futuro”. In Estrema sintesi:

  • La realtà dei paesi africani: luogo degli indigenti, massacro di sangue fraterno, neocolonialismo, arroganza intellettuale ed esperienziale;

  • La verità è sinfonica, non monocorde, è una relazione antropo-cosmologica, è dialogo di tutti gli esseri, viventi e non. Niente esiste fuori dalla relazione;

  • Va recuperato il senso del femminile nella storia, il femminile primordiale è sinfonia, è famiglia, è esprit de finesse;

  • La tartaruga marina appena esce dal guscio sa che il suo destino è l’oceano, non l’arida terra. Anche l’uomo usufruisce di spinte istintuali che lo indirizzano verso le sue mete e che gli fanno cogliere il senso del vivere;

  • La natura trinitaria dell’uomo “padre-figlio-madre” realizza una diversità sinfonica, una comunione delle distinzioni realizzata nell’amore;

  • La misericordia rivela l’aspetto essenziale di Dio e dell’uomo: è una giustizia con viscere materne.

Conclusione del relatore: siamo su un altro pianeta? Tanto quanto dista la metafisica dell’essere dalla filosofia del vissuto, tanto quanto dista l’esprit de geometrie dall’esprit de finesse. L’émotion est nègre, la raison est hellène (Senghor).

 

E’ seguito un dibattito acceso tra i numerosi presenti. Sono emerse, tra le tante, le seguenti riflessioni:

  • Davanti all’altro poniamoci in un atteggiamento di ascolto, non di giudizio. Solo così potremo capire e valorizzare le differenze;

  • L’Africa attuale è una realtà assai complessa, attraversata da nord a sud da culture diverse e da frammentazioni etniche. Soffre di un conflitto traumatico tra modernità e tradizione. Ciò è causa di specifiche turbe psichiche divenute oggetto di studio per la psichiatria;

  • Non limitiamoci a guardare in quali acque vivono gli altri, guardiamo in quali acque viviamo noi. Non c’è da stare allegri;

  • Non autoflagelliamoci: il mondo occidentale col suo sviluppo scientifico e tecnologico rappresenta la più avanzata espressione culturale raggiunta dall’uomo. Si potrà procedere oltre solo partendo dai nostri attuali livelli di civiltà;

  • Un africano presente ha affermato che il pensiero di Senghor è di ampio respiro e che le sintesi non consentono di coglierne la complessità e la ricchezza;

  • La natura umana presenta livelli di affinità ovunque. Le differenze ci sono ma non vanno enfatizzate;

  • Le differenze ci sono e sono profonde, tanto che molti le vivono come inconciliabili;

  • La tecnologia esporterà ovunque la cultura occidentale e ciò condurrà ad un processo di omologazione anche delle civiltà.

 

Molteplicità di posizioni, come sempre, perché il Caffè Filosofico vuol essere luogo di confronto di idee.

A fine serata: torta, brindisi, auguri e promessa di un dono slittato all’incontro di Gennaio a causa di un ritardo tipografico.

 

Dibattito

Data: 24.06.2013

Autore: Giacomo Minaglia

Oggetto: Dominio della tecnica

Ascoltando gli interventi di molti amici convenuti qualche giorno addietro per l’appuntamento del Caffè su Africa e mito, mi sono sorpreso ad avere alcuni pensieri irriverenti e birichini.
Quasi ritualmente, mi era parso, venivano pronunciate frasi in cui la preoccupazione per il "..dominio della Tecnica .." (la maiuscola secondo me c’era) si rivelava fortissima, e veniva data per inevitabile una catastrofica riduzione delle diversità più varie, sia in ecologia che in cultura.
La Tecnica (secondo me con la maiuscola) pareva aleggiare quasi Spirito, di persona propria fornito, omnipervasivo, invicibile nell’ineluttabile divenire.
Per piacere, non facciamoci prendere dal panico!
Proviamo a togliere la maiuscola, la divinizzazione di più o meno distinti concetti è già stata operata altre volte, cerchiamo di evitare questa.
Se togliamo la maiuscola, e ragioniamo sulla ..tecnica.. e sui rischi di riduzione delle opzioni che sempre questa comporta, penso che si possa stare più tranquilli.
Riflettiamo sul nostro passato, sulla storia dell’umanità per quel che ne conosciamo.
La tecnica ha avuto non solo oggi, ma a volte molto di più in passato, enorme rilievo sulle opzioni umane: la capacità di accendere il fuoco, la rivoluzione agricola neolitica,la scrittura.
Cito solo alcuni dei passaggi in cui l’affermarsi di una tecnica ha avuto un impatto a parer mio superiore, nelle conoscenze, nelle organizzazioni sociali, nell’ambiente, a quello che stanno avendo gli innesti tecnici attuali.
C’ò stato sì un periodo in cui l’orizzonte delle opzioni è stato molto povero: quello ferino,quando i nostri progenitori avevano a disposizione solo il proprio sé fisico, le proprie membra, senza alcuna protesizzazione artificiale.
In quel periodo l’omologazione ad un solo modello di comportamento era ineluttabile,come lo è attualmente per,che so io,una società di scimmie.
La capacità di adottare tecniche (con la minuscola ed al plurale…) ha comportato un ampliarsi delle opzioni, in sostanza delle culture.
Alcuni miti legati alle stagioni ed alle società neolitiche di agricoltori dell’area mediorientale e mediterranea sono ancor oggi leggibili neanche tanto sottotraccia.
Ritengo che in Oriente persistano influenze di miti analoghi.
Attualmente più o meno tutta l’umanità sta adottando tecniche di comunicazione e organizzazioni produttive convergenti: non è la prima volta che accade, ripeto che il neolitico con le sue convergenze e conseguenze (accentramenti dispotici statali, rigide teocrazie, patriarcato etc.) c’è stato e lo abbiamo assorbito abbastanza bene.
Non ritengo che fino al tempo presente si debba parlar di tecnica, e per il futuro prossimo venturo di Tecnica; non vedo degli accadimenti di portata tale da giustificare un allarme rosso.
Ogni volta che una tecnica di grande importanza si impone per la sua utilità, certamente altre vengono abbandonate, e culture collegate vengono ad essere obsolete,ed in questo senso è vero che l’albero delle opzioni orizzontali si riduce.
Per lo più, non è che una tecnica si impone manu militari: ad esempio la scrittura si è imposta per la sua capacità di tramandare conoscenze meglio che attraverso la memorizzazione ed il racconto: gli aedi hanno perso ruolo rispetto agli scribi, ma ogni essere umano ora conosce migliaia di storie.
Accade anche, però e soprattutto, che dal nuovo tronco si generano una quantità notevole di nuovi rami, cioè di nuove opzioni culturali; non affermo che il processo sia sempre in positivo ed indolore.
La colonizzazione da parte degli Europei del continente americano sta a dimostrare che almeno in quel caso la demolizione delle culture locali, rimaste isolate per millenni da barriere geografiche, fu quasi completa e si accompagnò a genocidi.
Questo è stato un caso particolare, perché altre barriere geografiche di tale entità, che isolando infragiliscono anche biologicamente, non ci sono.
Pur consapevole delle sofferenze che l’incontro con le tecniche occidentali ha portato a molte popolazioni, non ritengo che siamo attualmente di fronte ad una catastrofe.
I cinesi e gli indiani stanno interpretando a modo loro gli apporti occidentali,e ritengo che sia ragionevole aspettarci non un appiattimento, ma una cultura sincretica dalle interazioni che si stanno sviluppando.
(sincretico,letteralmente, nominava la confederazione delle città cretesi, litigiose ma collaboranti in caso di necessità)
Vogliamo essere un po’ ottimisti, guardando al futuro prospettato dalle tecniche (con le minuscole), che gli uomini e le donne di questo pianeta stanno via via usando?
Questa volta sorridano gli amici; mi butto ingenuamente nelle previsioni futuribili, tanto per bilanciare il futuribile catastrofista.
In tempi medi la popolazione del pianeta si stabilizzerà (sta già accadendo), ed inquineremo di meno, visto che l’energia fossile non sarà disponibile per molto e per tutti, e più o meno si sa come produrre energia rinnovabile.
La vita media aumenterà sensibilmente, certo non saremo immortali ma tutti abbastanza longevi, e quindi mediamente più colti (ognuno nella sua variante, si capisce).
Il sistema solare verrà esplorato e progressivamente abitato; sembra una sciocchezza fantascientifica dirlo, ma ritengo che sia l’orizzonte ovvio, stante che ciò si può fare semplicemente con le conoscenze attuali, e stante l’immensità delle risorse energetiche e materiali che vi sono.
Con uno spazio enorme davanti a sé, e risorse intellettuali e materiali rilevanti, (comportanti tra l’altro la possibilità di conoscerci meglio l’un l’altro) l’albero della diversità di opzioni, in sostanza l’albero della libertà e diversità porterà molti rami.
Semplice estrapolazione di quanto sta accadendo.
Sarà un mondo migliore?
Ancora una volta siamo di fronte a scelte, e speriamo di usare le risorse in condivisione e rispetto reciproco.
Comunque, non mi pare che siamo complessivamente all’alba di un restringimento orwelliano.
Il grande fratello c’è, ma più che tragedia si tratta di farsa.
C’è un gran sole alla finestra, usciamo.

Data: 24.06.2013

Autore: Secondo Giacobbi

Oggetto: Riflessioni

Il testo di Don A. Cantoni mi ha colpito e stimolato. Vorrei raccoglierne due spunti forti:
Cantoni cita padre Tempels, che riflettendo sull'evangelizzazione in Africa definisce " un crimine contro l'educazione spogliare i popoli del proprio patrimonio".

Sono d'accordo. Ma l'evangelizzazione, cioè l'azione missionaria (cattolica o protestante, cristiana o musulmana) non è, al fondo, una spoliazione?

La religiosità africana è una religione del "divino", cioè di una energia vitale che permea tutto l'universo. Non sembra quindi avere i caratteri " personali " del Dio occidentale.

Mi chiedo allora: c'è forse nelle grandi religioni monoteiste cosiddette "rivelate" una intrinseca vocazione egemonica, missionaria, potenzialmente spoliatrice? Il loro Dio è infatti un Dio personale, unico: è l'unico e vero Dio,che quindi impone un credo fideistico ed esclusivo,per quanto tollerante.


Personalmente credo che solo una religiosità che si liberi dalla presunzione della rivelazione unica e personale può affrancarsi dalla tentazione della spoliazione e della sopraffazione. Come "cristiano" preferisco il Gesù del Padre Nostro al Gesù del Credo.

Data: 24.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Nostalgia dell'Africa

Non sono mai stata in Africa. Probabilmente non ci andrò mai. Prima di ascoltare la lezione di don Agostino (in anteprima, nel dicembre 2002, in classe, con tanti ragazzi attenti), per me l’Africa era quella studiata in storia, in geografia, oppure quella del leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese. Una terra tormentata e mitica al tempo stesso. Poi ho scoperto il pensare africano.

E’ facile scadere nel paternalismo quando si parla di pensare africano.

Sicuramente don Agostino l’ha evitato, perché, oltre ad essere uno studioso serio e profondo, è una persona che ama gli esseri umani, e chi ama sinceramente non può trattare con tono paternalistico chi presume essere più piccolo di lui. Se mai, con tono paterno.

Non però tutti gli interventi del 13 dicembre sono stati esenti da paternalismo: c’è il paternalismo di chi dice di avere molto da imparare, e si china dall’alto della propria posizione di privilegio per accordare udienza ai più sfortunati; e c’è il paternalismo di chi, forse con una punta di cinismo, dichiara esplicitamente la propria superiorità di figlio dell’Occidente e della società scientifico-tecnologico-opulenta.

Per carità, non voglio giudicare nessuno, e tanto per chiarire mi ascrivo subito al primo gruppo, nel senso che sono anch’io curiosa e interessata, anch’io voglio ascoltare quello che gli africani hanno da dirci. Solo che questo ascoltare si colloca per me nel flusso della nostalgia.

Sì, direi che la nostalgia è la categoria più appropriata (parlo di categorie, perché non ho vergogna di dichiararmi figlia di quella filosofia greca che è stata più volte citata in un contesto non propriamente elogiativo).

Prima di tutto, nostalgia di una visione del mondo non ancora smagata, nel senso del pensiero aurorale, dell’infanzia dell’individuo e dell’umanità. La magia, l’infanzia non hanno qui alcuna valenza dequalificante; al contrario, sono il simbolo di una condizione di innocenza originaria, di illusione, di contatto con una natura oggi relegata in riserve e zone protette. Nostalgia dei cinque sensi, oggi ridotti a due, nella migliore delle ipotesi: vista e gusto. L’olfatto è svilito e depauperato: chi sa apprezzare ancora il profumo del muschio, dei tigli fioriti, della buccia di mandarino bruciata con il fiammifero? Dell’olfatto, spesso deprezzato o sospinto ai margini dell’esperienza, riabilitato solo nell’eccezionalità e nell’ambito snobistico dell’aromaterapia, la civiltà occidentale sembra aver privato anche i cani. Il tatto non viene educato, se non in alcune scuole dell’infanzia postmontessoriane, che meritoriamente ne promuovono lo sviluppo in forma ludica. Non parliamo dell’udito: chi sa più ascoltare? Si inizia a perseguire la capacità di ascolto in prima elementare, e non si finisce mai di proporsela come obiettivo, per una indicibile refrattarietà degli studenti. Quanti ragazzi sanno distinguere il canto della tortora da quello del colombo? Si sa che la cicala frinisce o il tordo zirla per averlo letto su qualche antologia, ma a quale suono corrispondano quei verbi tanto ricercati chi lo sa dire? Qualche studioso pascoliano va un po’ più in là, e si spinge al chiù dell’assiolo. Ma difficilmente si esce da un percorso letterario, dove i suoni sono nominati, non realmente uditi e riconosciuti. Forse è anche questa la vita vissuta del pensare africano: quella di chi sa interpretare suoni, profumi, sensazioni tattili. Insomma, la forza vitale di Tempels per noi potrebbe nascere da una rieducazione dei cinque sensi.

Tanto per essere spudoratamente nostalgica, citerò Marcuse, che nel lontano 1969, in cerca di "una base biologica per il socialismo", auspicava la nascita di una nuova sensibilità: "La nuova sensibilità, in cui si esprime il sopravvento degli istinti della vita sull’aggressività e sul senso di colpa, promuoverebbe, su scala sociale, il bisogno vitale di abolire la povertà e la fatica e foggerebbe l’ulteriore evoluzione del ‘ tenore di vita ’. Gli istinti vitali troverebbero espressione razionale." (Saggio sulla liberazione). Questa sensibilità non mi pare affatto in contraddizione con la razionalità, ma solo con quella variante degenere della razionalità che Mauro De Zan ha così bene chiarito nel suo intervento: quella che è espressione di un sistema di dominio sociale, la "ragione strumentale" di cui parla Horkheimer nell’Eclisse della ragione (1947). Insomma, il volto violento della razionalità, per timore del quale non sarei disposta a rinunciare ai vantaggi della ragione: la dialettica dell’illuminismo non è un buon motivo per mandare disperse le conquiste della filosofia illuministica (v. dibattito su Mori e bioetica).

D’altra parte, anche la natura ha il proprio volto di violenza e di morte, e mai come in questi giorni ce ne rendiamo conto. Ma non per questo saremmo dell’avviso di soffocare e distruggere ciò che è "natura" fuori e dentro di noi.

Senza soffermarmi sugli aspetti politico-religiosi del pensare africano, che sono indubbiamente affascinanti, ma rischiano di scatenare quel famoso senso di colpa legato al colonialismo da cui pare noi siamo affetti, vorrei richiamare quella Filosofia intorno al fuoco di Lopes che più di ogni altra evoca nostalgia di un modo di vita perduto. Sarebbe bello potersi trovare intorno al fuoco e sotto un albero, anziché in un ambiente che sa di freddo artificio e noiose conferenze… Certo, sarebbe bello, ma dopo quell’incontro chi preferirebbe rientrare in una capanna, piuttosto che nella propria comoda casa dotata di acqua calda e luce elettrica? La filosofia intorno al fuoco è un mito, così come l’idea della storia ecologica dell’uomo, della relazionalità antropo-cosmica e della sinfonia degli strumenti armonizzati di cui parla Lopes, e così come il comprendere che si colloca nel "contesto comunicativo dell’atto dell’intesa" di cui parla Gadamer.

Ma perché rinunciarvi? Perché piuttosto non cercare di riaffermare ancora e ancora ciò che unisce, mettendo da parte e in secondo piano ciò che divide? La filosofia ha questo grande vantaggio: di vedere le cose da un punto di vista universalmente umano, di congiungere, al di là delle differenti opinioni, di farci sentire una piccola ma non insignificante particella di quella che gli illuministi definivano "la grande catena dell’essere", e gli africani forse chiamano "catena delle forze vitali" che fa di ogni individuo un individuo clanico.

Ho sempre pensato che ogni anziano che muore sia una biblioteca che brucia, fin da quando, bambina, assistevo alla scomparsa di persone di grande cultura e umanità, soffrendo non soltanto per la privazione della loro compagnia, ma anche per il sopruso della cancellazione istantanea della memoria di cui ciascuno di loro era custode.

Può darsi che ciò di cui abbiamo nostalgia sia l’amore viscerale e gratuito della madre, quell’amore che non pone condizioni, e non domanda al figlio di essere ciò che non è, come quello della madre di Wolfgang Amadeus Mozart. " ‘Mi vuoi bene?’ Quante volte l’abbiamo detto, pensato, ascoltato. Interrogativo incompiuto: ne restano a mezz’aria, non dette, le ultime parole: ‘…anche se non fossi come tu mi vuoi?’ " (F. Scaparro, Talis pater). Sì, la madre di Mozart gli vuole bene comunque. Il padre invece solo a condizione che egli dimostri il primato dell’eccellenza. Ma Wolfgang è immortale solo perché Leopold gli ha posto condizioni. Abbiamo bisogno della madre, e abbiamo bisogno del padre. Abbiamo bisogno dell’esprit de finesse, ma anche dell’esprit géometrique, di Dioniso e di Apollo. Non vogliamo rinunciare a nulla, nell’integralità della persona. E vogliamo continuare a cercare e a vivere come il filosofo di cui parla Platone: quello che ha sempre tempo per svolgere discorsi, che magari viene deriso dalla gente perché è impacciato nelle questioni spicciole della vita quotidiana, ma si trova a proprio agio quando si occupa della giustizia e della felicità, e il cui pensiero "se ne vola dappertutto, come dice Pindaro, sotto la terra, misurando le superfici come un geometra, studiando gli astri lassù nel cielo" (Teeteto), e sempre "benevolo coi suoi familiari e conoscenti" (Repubblica). Dobbiamo pensare che la sinfonia filodrammatica sia possibile.

Data: 24.06.2013

Autore: Mauro De Zan

Oggetto: Riflessione

Cari amici del Caffè filosofico,
l’intervento di Tiziano mi ha fatto ricordare che avevo in mente di scrivere qualcosa sull’ultimo incontro, ma, come spesso capita, avevo lasciato passare i giorni in attesa di mettere insieme qualche cosa.
Mentre don Agostino parlava di come noi (o gli intellettuali africani di formazione europea) vediamo, sentiamo, i rapporti tra la nostra cultura e quella “africana”, pensavo che curiosamente molte delle cose che noi oggi riscontriamo nella cultura nera e avvertiamo come qualcosa di cui abbiamo una strana nostalgia sono più o meno le stesse che i viaggiatori inglesi, tedeschi e scandinavi ritenevano di trovare negli italiani: l’amore per la danza e il canto, la capacità di avvertire e apprezzare la bellezza, la capacità di vivere in modo naturale e di esprimere spontaneamente i propri sentimenti, la solidarietà e la cortesia nell’ospitalità. Insomma una capacità di affrontare la vita in modo aperto senza soffocanti sovrastrutture che impediscono il libero dispiegamento della personalità e della capacità dell’individuo e della comunità di rapportarsi con la natura e l’ambiente che ci circonda, senza insomma avvertire qualcosa di artificiale, la Ragione, che ci impedisce di vivere e godere di questo rapporto. E’ vero che qualcuno tra questi viaggiatori notava che tra noi italiani c’era il vezzo dell’uso un po’ facile del coltello per dirimere controversie o per alleggerire la borsa degli sprovveduti, però anche questo uso della violenza nei rapporti interpersonali era in fondo espressione del nostro temperamento “caldo”, certamente più apprezzabile e meno noioso di quello prevedibilmente razionale e ipocrita dei nordici.

La cosa interessante è che questi viaggiatori parlano dell’Italia del Settecento e dell’Ottocento (per il Sud qualcuno addirittura della prima metà del Novecento). Ma se gli italiani apparivano così “naturali” allora significa che solo di recente siamo diventati “occidentali”. Se così è, allora va chiarito il rapporto tra “razionalità” della filosofia e della scienza occidentale e comportamenti naturali e non-occidentali degli italiani dei secoli scorsi. In effetti il nostro Paese ha dato i natali a molti filosofi occidentali e razionalisti al cento per cento: da Parmenide in poi l’elenco è troppo lungo; basti ricordare per i tempi moderni quel fanatico di Galileo reo di avere imposto una visione meccanicistica dell’universo, o a quegli stolti devoti alla Dea Ragione che furono gli illuministi. Se si accetta il postulato che la nostra cultura, intesa come modo di vivere e percepire la realtà e i rapporti tra gli uomini, è frutto della filosofia occidentale, intesa come insieme delle opere, dei pensieri, dei filosofi nati nei paesi occidentali a partire da Talete in poi, allora siamo di fronte a una bella contraddizione.

L’Italia e la Grecia dovrebbero essere paesi ultrarazionali, platonici, dove tutto trasuda razionalità: mentre, che so, la Finlandia, dove non si ricorda un filosofo nazionale a memoria d’uomo, dovrebbe essere il regno della spontaneità e della scioltezza.

Dobbiamo quindi riflettere su cosa intendiamo quando parliamo di razionalità dell’occidente e quali siano i rapporti tra questa razionalità e la razionalità della filosofia occidentale. E se davvero esiste una filosofia occidentale così monolitica e capace di formare in profondità i popoli che abitano queste tristi contrade. Io insomma credo che quella che intendiamo come la razionalità dell’occidente sia la razionalità dei rapporti di produzione propri del modello industriale che si è imposto dapprima in Inghilterra e quindi in diversi altri paesi europei e non europei (America e Giappone etc.) che per comodità chiamiamo occidentali. E’ insomma la razionalità del taylorismo. Cosa ha a che fare questa razionalità che si occupa di razionalizzare il lavoro e la distribuzione delle merci con le speculazioni dei filosofi occidentali? Tanto, poco, nulla? Sinceramente propendo per il poco: la ragione dei filosofi e degli scienziati è una ragione critica, che cerca continuamente di mettere in crisi le verità scontate, una ragione che in sé non è interessata a scopi immediati, alla realizzazione di qualcosa. Al contrario la razionalità dei processi produttivi ha un fine preciso, tangibile: l’aumento della produzione. Certo non nego che vi siano dei rapporti e soprattutto che tali rapporti nell’ultimo secolo si siano rafforzati: la nascita della tecnoscienza è lì a ricordarci che della scienza “vera” abbiamo forse solo un vago ricordo. Forse quella che chiamiamo scienza oggi non è altro che una branca del sistema produttivo: in effetti dire che in un certo paese ci sono centinaia di migliaia di scienziati urta con la nostra tradizionale immagine di scienziato, che è tutto tranne che quella di un impiegato coscienzioso, attento a rispettare l’orario dell’ufficio.

Credo infine ( che Dio mi perdoni!!) che la razionalità taylorista, basata su chiare differenze dei ruoli, sulle procedure ben predisposte e che vanno sempre meticolosamente rispettate per non mettere a repentaglio il bene comune della produzione, abbia radici ben più profonde nello spirito della tradizione giudaico-cristiana che tende a dare molta importanza alla liturgia, alle distinzioni dei ruoli, a indicare precetti e divieti da seguire scrupolosamente. Una tradizione che per un lungo corso di secoli ha abituato tutta la popolazione a vivere (almeno una parte della loro vita) secondo regole precise indicate da un gruppo di persone che detiene un sapere e un potere particolare. Col taylorismo si è sostituito il sacerdote con l’esperto, il tecnico. E la religione con i “valori” della società industriale. Huxley scrive che nel Mondo nuovo gli anni non si contano più dalla nascita di Cristo, ma dalla nascita del Modello T della Ford, il primo vero prodotto industriale.

Comunque, finché contiamo gli anni secondo il modo tradizionale, auguro a tutti un buon Natale,

Mauro

Data: 24.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: LA RAGIONE NELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE

La relazione di don Agostino nell’ultimo appuntamento del caffè filosofico sul tema del “pensare africano” è stata interessante e stimolante: per questo un grazie al relatore che è stato chiaro ed appassionato come sa sempre essere.

Il dibattito, poi, ha mostrato due atteggiamenti diversi se non addirittura contrapposti: adesione alla proposta del relatore (la filosofia dell’Occidente è solo – o troppo- ragione), e qualche tentativo di svincolarsi da un atteggiamento forse troppo scontato, per avanzare dubbi sul valore del sentimento, delle emozioni e del “naturalismo” per una società, a partire da quella africana, che avrebbe forse bisogno di più ordine e di progresso.

Personalmente sto dalla parte dei critici, almeno per due motivi.

Anzitutto perché “la ragione” della filosofia dell’occidente è tutt’altro che astratta e metafisica, e quindi – si dice- lontana dalla vita. Al contrario tutta la filosofia occidentale è uno sforzo teoretico volto alla prassi; la stessa metafisica è – a partire da Platone ed Aristotele – solo il percorso ritenuto indispensabile per capire e spiegare il mondo “delle cose”altrimenti impossibile ed impenetrabile rispetto alla volontà dell’uomo di dominarlo e piegarlo al proprio interesse. Questa è la base da cui si sviluppa la conoscenza scientifica come teoria della tecnica che è il modo occidentale appunto di dominare il mondo ( e quegli uomini che dalla tecnica sono o si tengono lontani). E se c’è un posto per la metafisica, figurarsi per quegli aspetti che caratterizzano più da vicino “la fatica di vivere” come le emozioni, le ideologie, i sentimenti, per tanti aspetti la stessa religiosità: strumenti per un fine, quello di farsi il più possibile, padroni del mondo.

Il secondo motivo è dato dalla debolezza teoretica che caratterizza le ragioni di vita non occidentali, debolezza che le rende sostanzialmente inermi rispetto alla aggressività della tecnologia e quindi del progresso sociale ed economico che invece ha caratterizzato e caratterizza l’occidente.

E l’aggressività del “ricco” appare molto allettante al “povero”.

C’è però una terza considerazione da fare: una critica alla cultura occidentale che sia basata su una più rigorosa teoreticità, mette in crisi la ragione “metafisico-scientifica” per far intravedere un mondo non aggressivo, più pacato e più sereno, che, se si vuole, assomiglia un po’ a quello del “danzare la vita”.

C’è però, allora, una differenza fondamentale: non si tratta di “tornare” alla naturalità, al primitivo; al contrario si tratta di andare oltre la filosofia dell’occidente per raggiungere una razionalità teoreticamente più radicale (massimamente radicale) e più limpida.

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