RIPENSARE LA VITA, OVVERO LA PROVOCAZIONE DELLA BIOETICA - RELATORE: MAURIZIO MORI

14.06.2004 21:00

 

“Ripensare la vita, ovvero la provocazione della bioetica”: sarà questo il delicatissimo e dirompente tema del prossimo incontro del Caffè Filosofico che si terrà lunedì 14 giugno, alle ore 21, presso ilCaffè Gallery di via Mazzini. Relatore della serata sarà il prof. Maurizio Mori, docente di bioetica all’Università di Torino, fondatore e direttore della rivista “Bioetica”, socio fondatore e segretario della Consulta di Bioetica di Milano, membro del direttivo della International Association of Bioethics, già membro della Commissione Dulbecco, autore di numerose pubblicazioni, tra cuiAborto e morale, il Saggiatore Milano1991, La fecondazione artificiale. Una nuova forma di riproduzione umana, Laterza, Roma-Bari 1995, La moralità dell’aborto, Edizioni di Comunità, Torino 2002, Bioetica, Bruno Mondatori, Milano 2002.

Il prof. Mori fa parte di un drappello di bioeticisti (tra cui spiccano Engelardt e Singer) che da anni sta conducendo una battaglia culturale, in nomi di valori laici, contro la “vecchia morale”. Sono gli sviluppi della ricerca scientifica che – secondo tali studiosi - impongono di “ripensare la vita”, di mettere in discussione le categorie culturali che hanno dominato per secoli. Tutto viene “ripensato”: l’idea del nascere e del morire, il concetto di “persona”, la distinzione tra “naturale” e “artificiale”, la stessa distinzione tra “uomo” e “animale”. Perfino il pur recente concetto di morte cerebrale viene passato sotto il vaglio critico: proprio perché è la corteccia cerebrale il supporto biologico della “persona”, è la morte “corticale” che costituisce la morte “personale”.

Una battaglia culturale a livello di “principi”, senza alcuna conseguenza pratica? Tutt’altro: è lo stesso ripensamento delle vecchie categorie culturali che richiede un ripensamento della stessa morale. Non è un caso che Peter Singer sia arrivato a riscrivere gli stessi comandamenti biblici. Un’operazione blasfema? Tutto dipende dal punto di vista. Una cosa è certa: i nostri “laici”, in un’epoca in cui sono tramontati gli “dèi”, non si battono per imporre in modo manicheo una concezione “razionale” contro altre oscurantistiche, ma per il valore del pluralismo, per il politeismo dei valori e, di conseguenza, per valorizzare il più possibile la coscienza morale di ogni persona.

L’intervento del prof. Mori sarà, senza dubbio, “forte” ed offrirà un nuovo approccio - quello, appunto, della bioetica laica - che arricchirà ulteriormente il tema che il Caffè filosofico ha  scelto come Leit-motiv dell’anno 2004 (l’enigma-uomo), un tema che è stato già oggetto nei mesi scorsi di altri punti di vista: la nascita dell’“io”, l’uomo-linguaggio, l’uomo-religioso, la chiave di lettura psicoanalitica.

L’incontro è aperto a tutti gli interessati.

 

 

L’ultimo appuntamento, prima della pausa estiva, si terrà il 24 giugno, alle ore 21, presso il Golf Club di Ombrianello. Sarà una serata all’insegna della musica: il I° Festival della filosofia. Si esibirà l’orchestra Karanovic. Voce: Alessandra Ginelli. Batteria: Mario Petrò. Basso: Antonio Cabini. Tastiera: Marco Ermentini. INGRESSO LIBERO.

Dibattito

Data: 28.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Digito, ergo sum

Questo Caffè filosofico mi pare sia davvero una buona cosa. Chiunque può intervenire e sostenere le proprie opinioni, sia che le creda relative, sia assolute. Grazie, dunque, agli amici Piero e Tiziano che hanno avuto questa bella idea.

Ho riflettuto a lungo sugli ultimi interventi di Piero e Mauro a proposito della relazione Mori. Entrambi sostengono tesi interessanti e ben argomentate. Come negare, ad esempio, che la scienza, come dice il primo, ha creato problemi sempre più complessi e una lunga fila di ipotesi concatenate che generano una serie interminabile di delicatissime questioni morali? E come negare, poi, come afferma il secondo, che la ragione è uno strumento – il solo – a cui facciamo ricorso per risolvere i problemi che ci affliggono? E come non consentire con Tiziano quando mette in guardia da una “delega in bianco” alla tecnologia e alla biogenetica, che rischiano di espropriarci della nostra dignità di persone?

La mia personale posizione è che la relazione di Mori sia stata opportunamente provocatoria, ed abbia saputo esprimersi con giusti accenti, visto il luogo e vista l’occasione. Certo, mi era sembrato assai più interessante il suo intervento alla mia scuola, quattro anni fa, quando aveva analizzato con grande competenza ed efficacia le sottili differenze fra posizioni morali cattoliche, kantiane, gandhiane, tolstoiane, ed aveva chiarito i termini teorici delle problematiche bioetiche. Ma un conto è la scuola, un conto è il Caffè. Confesso inoltre di essere anch’io, come Mauro, un’incurabile illuminista, e di preferire i rischi dell’abuso della ragione rispetto a quelli dell’abuso dell’autorità. Ma non è di questo che intendevo parlare, quanto piuttosto di due questioni.

La prima, forse poco filosofica, sicuramente pratica, nasce da una domanda: alla fine, quando ci troviamo nella necessità di assumere posizioni decise, optando per l’una o per l’altra soluzione di un delicato problema esistenziale, a che cosa ci appelliamo? Credo che esistano almeno due categorie di persone: quelle che trattano Dio come un amico, e quelle che trattano come amici Platone o Cicerone. Sia le une che le altre si rivolgono a un “consigliere interiore” capace di suggerire il comportamento da assumere di volta in volta nelle difficoltà. A Dio o a Cicerone chiederò aiuto quando ho un compito in classe? A Dio o a Platone quando devo scegliere in modo saggio? E’evidente che sia nell’uno che nell’altro caso sono io stesso a scegliere (la voce della coscienza, il demone socratico, che non è poi così superato), sulla base delle mie opzioni culturali, sociali ed etiche. Una differenza però c’è: mentre non esiste nessuno che si ritiene autorizzato a parlare in nome di Platone, esistono nella storia della civiltà occidentale diversi casi di persone che si ritengono autorizzate a parlare in nome di Dio. In questi casi si deve prestare grande attenzione a non smarrire la nostra capacità di giudizio autonomo. E’ vero che più si procede negli anni, più si è portati a recuperare quella fede che ci è stata insegnata nell’infanzia (se mai l’abbiamo smarrita), ma è pure vero che anche le diverse esperienze di vita conducono a scelte valoriali divergenti, fra le quali è difficile orientarsi e qualificare l’una come migliore dell’altra. L’importante è che nessuno pretenda di trattarci come infanti o minorenni, solamente perché la nostra opzione è diversa dalla sua, neppure se la sua è confortata da una lunga tradizione.

La seconda questione nasce da un ripensamento delle serate del primo anno di questo Caffè. L’argomento affrontato non poteva essere più coinvolgente: la persona, l’identità personale. Mi pare che un filo conduttore attraversi gli interventi di tutti coloro che si sono impegnati nell’esprimere i punti di vista delle differenti discipline: l’identità personale è relazione complessa (polidentità) non facilmente circoscrivibile nello spazio né delimitabile nel tempo (quando nasce la persona? quando muore?). Forse si potrebbe aggiungere un’altra prospettiva, tenuto conto della suggestiva dimensione evocata dal filosofo virtuale Andrea Bortolon: la mia identità è ciò che io voglio sia, quando chattando me ne invento una, o più di una, nella maggior parte dei casi assai differente, sotto vari aspetti, da quella reale. Un uomo può diventare donna, o viceversa, un bruttino bello, una attempata recuperare gioventù e fascino, un emarginato può vivere una vita ricca di gratificanti incontri, ognuno può finalmente scatenare i propri desideri più sfrenati. Io sono l’unico giudice della mia identità, io sono ciò che digito, e nessuno può affermare il contrario, per lo meno finché io e l’altro restiamo distanti e divisi. La possibilità di comunicare si paga con l’isolamento nel mondo multimediale. Qui la persona non sa chi è l’interlocutore, e bluffa su se stessa. Ma questo bluff è la mia vera identità, è il nuovo ottativo del cuore cambiato in un presente felice, è la feuerbachiana proiezione alienativa, capace di nascondermi all’altro ma anche di svelarmi a me stesso. E’ la nuova illusione foscoliana, il nuovo sogno freudiano in stato di veglia, che la coscienza non si vergogna più di formulare e non consegna al buio della notte. Digito, ergo sum. Ma a condizione di restare imprigionato nel mio stesso inganno digitale. Non so che cosa penserebbe Severino di un simile uso o abuso della tecnologia, ma certamente si tratta di un fenomeno con cui dobbiamo fare i conti, perché è un fenomeno di quel tempo che, come dice Piero, è il nostro, e in cui dobbiamo pur vivere, orientarci, decidere. Se il nostro è il tempo del pluralismo, dei valori liberali e della democrazia ( e sono convinta che lo sia), allora è giusto e inevitabile che anche la persona sia la persona del pluralismo, una persona plurale. E in quel plurale è compreso ciò che, digitando, voglio fare di me. E sia pure solo in modo virtuale.

Data: 28.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: Scienza, tecnica e filosofia

Dal momento che il dibattito fra filosofia e scienza è destinato a svilupparsi ulteriormente, svolgo al riguardo qualche ulteriore nota rispetto a quanto già abbozzato negli interventi precedenti.

La differenza fra scienza e tecnica può essere considerata analoga a quella fra teoreticità e prassi in sede filosofica: la scienza è conoscenza pura (?), la tecnica è applicazione pratica.



Ne deriva che, utilizzando il ragionamento aristotelico, la scienza è una “virtù” di pura conoscenza e quindi senza limiti (la razionalità non deve essere mai condizionata), la tecnologia invece corrisponderebbe ad una “virtù” etica, e quindi si esprime al massimo della propria efficacia in termini di “giusto mezzo”; il che vuol dire con i condizionamenti determinati dalla prassi. Con linguaggio kantiano si tratterebbe in sostanza di capovolgere (daccapo una nuova rivoluzione copernicana!!) la definizione di “ragion pura” e di “ragion pratica” e quindi di considerare quest’ultima del tutto condizionata dalla contingenza storica, e invece la prima nella propria oggettività logica.



In altri termini: le invenzioni della tecnica devono fare i conti con le responsabilità del “bene comune” (uso apposta questa espressione in quanto si presta a discussioni infinite) e quindi con le responsabilità della politica. Saltare questo passaggio significherebbe un alibi per mancate scelte politiche di tipo sociale (debolezza della politica) oppure la deliberata volontà di instaurare una politica antidemocratica.

Data: 28.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: A proposito della filosofia come " luogo del libero confronto."

Tutti credono alla libertà di opinione, ma nessuno che fondi veramente tale opinione. Parrebbe essere un assioma, quando invece per secoli si è creduto il contrario: ma allora, si dice, si sbagliava: su questo l’opinione è certa!

La ragione porterebbe al libero confronto di opinioni, senza che ci sia un metro assoluto per dire quale opinione sia giusta e quale sbagliata. Naturalmente si crede che tale affermazione sia del tutto giusta!

Che cosa sia la filosofia a questo punto non è chiaro (d’altra parte ognuno può avere la sua opinione!): un luogo di puro dibattito senza conclusioni che non siano provvisorie (quanto possono durare?), una ricerca continua di cavilli da parte di chi per natura sia un "bastian contrario", un confronto di opinioni genericamente politiche alla ricerca (infinita) di un benessere collettivo che porti al migliore dei mondi provvisoriamente possibile? O un insieme di tutto questo?

Argomentare infinito che è sotto gli occhi di tutti, senza chiavi interpretative definite.

Possibile che la filosofia sia questo?

Non credo: la fiducia nella ragione non è quella che riduttivamente pensavano e pensano gli illuministi ("la ragione risponde nei limiti delle proprie forze e capacità, se ben usata"), che rimangono sul piano della riflessione "pratica" senza peraltro nemmeno avvertire l’esigenza di definire tale piano di riflessione, considerandolo a priori l’unico possibile.

La ragione ha ben altri motivi per pretendere la nostra fiducia, ben oltre quei limiti nei quali l’uomo degli illuministi si è da solo rinchiuso per incapacità o per sfiducia.

Certo l’Illuminismo ha avuto il merito di spazzar via "inveterate credenze e false superstizioni", ma ha avuto il torto di credere che ad esse si dovevano sostituire nuove credenze e nuove superstizioni, in attesa di essere spazzate via anch’esse. La novità per la novità!

Null’altro che una rinnovata affermazione del "divenire".

E allora bisogna che tutto questo provvisorio argomentare (che non è per niente tutto sbagliato, anzi) mostri finalmente il proprio fondamento (assoluto); e lo mostri non rinnegando il passato ma cogliendone la profonda motivazione: anche l’assoluto della metafisica era ed è funzionale alla individuazione di una dimensione (che da ultimo diventa contraddittoriamente l’unica) dove tutto sia provvisorio, dove l’argomentare sia affidato alle capacità dialettiche della violenza più o meno palesemente mostrata (la guerra o la pubblicità), dove l’umanità sia veramente una "canna al vento". Non è negando l’assoluto (peraltro in modo assoluto, pena lasciarlo vivere) che ci si salva dalla violenza del pregiudizio: al contrario se ne diventa maggiormente succubi. Dal pregiudizio si esce col "giudizio", oppure non se ne esce. O, peggio, si curano gli effetti senza curarsi delle cause.

Quest’ultima affermazione mi introduce all’argomento specifico dei limiti della tecnologia (non della scienza che, in quanto teoria, è giusto non abbia limiti che non siano legati alla conoscenza progressiva). Prendiamo due campi dove la tecnica è oggi particolarmente vivace, anche per rimanere in tema: l’informatizzazione e la biogenetica. L’oggi sociale richiede certo maggior efficienza, ma pensare che questo si possa risolvere solo in un bisogno di maggior tecnologia, rischia di essere pericoloso perché può risolversi in una "delega in bianco", con la politica che rischia di farsi espropriare dei suoi compiti di scelta e di decisione su gravi questioni sociali. Occorre essere convinti che la tecnologia non è mai neutrale, nonostante faccia di tutto per apparire tale: cosa si farà della sorveglianza totale delle persone che la tecnologia dell’informatizzazione può ormai garantire? Di chi e di che cosa sarà al servizio: del rispetto della persona o dell’interesse delle imprese? Si ridurrà ad una schedatura totale di tutti con la scusa di reprimere il crimine senza bisogno di rimuoverne le cause? E nel campo della biologia medica si salverà veramente la decisione autonoma della persona rispettando la parte più intima della sfera privata, oppure di fatto verremo tutti condizionati dall’aver reso possibile l’impossibile?

Anche analizzando il puro piano "della prassi" balza quindi prepotente ed ineliminabile l’esigenza di un piano più profondo e definitivo: è questo il piano che considero veramente filosofico.

Tiziano Guerini

Data: 28.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: A proposito della filosofia come “luogo del libero confronto.” Parte seconda.

L’intervento di Tiziano Guerini, che ha introdotto una voce nuova nel dialogo (peraltro interessantissimo) tra Piero Carelli e Mauro De Zan, ha anche in parte sterzato su un tema che mi pare stia a Lui molto a cuore, cioè il rapporto (o coincidenza?) tra discorso filosofico e ricerca dei fondamenti.

In effetti anch’io credo che sia proprio questo il punto: per quale motivo – e ne siamo stati tutti testimoni, sia durante che dopo l’ultimo incontro al Caffè prima della pausa estiva – quello scottante tema bioetico ha dato luogo al dibattito (credo) più acceso da quando è nato il Caffè medesimo? Secondo me, proprio perchè in questo genere di problemi si evidenzia con maggiore forza la necessità di enunciare, con un certo grado di confidenza, dei criteri (fondamenti) assoluti di giudizio (e quindi comportamento, se si è coerenti) a cui ancorare il pensiero. Io non so se la questione si può porre effettivamente in questi termini, e, se così è, non so se la risposta debba essere senz’altro un banale no, quali criteri “assoluti”? I criteri sono sempre rivedibili, trattasi unicamente di trovare un territorio comune, all’interno di una comunità definita, su cui fondare la convivenza civile. In effetti, mi preme dirlo, tale soluzione “pragmatica” è secondo me banale solo in apparenza; sospetto che altro non sia che il metodo della discussione critica, che è patrimonio della civiltà e della democrazia occidentale, e non c’è bisogno di scomodare gli illuministi o le teorie liberali di un Popper per essere d’accordo.

Tuttavia, mi piacerebbe esplorare la possibilità di poter andare oltre, restando all’interno dell’argomentazione razionale.

Credo che Tiziano Guerini identificherebbe questa strada con quella dell’indagine - di stampo parmenideo, o forse heideggeriano - sull’Essere. Risali ai fondamenti, guarda cosa c’è prima, o dietro, o all’origine, ed arriverai a Quello, eterno ed immutabile, alieno dal divenire della doxa. Questo sarebbe il vero principio ed il fine della filosofia. Sono io il primo ad essere affascinato da tale percorso, ma lo confesso, non riesco a coglierne la portata, non appena si scende al livello dei fatti e dei valori concreti. Trattasi di una mera epochè astratta, o ha anche dei risvolti pratici? E se ne ha, in che modo? Cosa cambierebbe nel nostro modo di vivere e percepire le cose? Per non parlare della domanda autoreferente per eccellenza: cosa è l’Essere?

E’ da quella sera in cui ascoltai Maurizio Mori che cerco di capire perchè, nonostante sia consapevole che non sappiamo in quale momento la formazione cellulare conseguente al concepimento si possa dire Persona, e che comunque in quel processo ontogenetico non c’è nulla che trascenda il biologico – scientificamente parlando - , qualcosa dentro di me mi obbliga a considerare l’Uomo un “being apart”. In altre parole, se si scardinano i vincoli a trattare un embrione come un qualunque agglomerato biologico suscettibile di manipolazione – qualunque ne sia lo scopo, terapeutico o solo del tipo “non voglio tenere questo figlio, punto e basta, la madre sono io e decido io” - , allora, per Dio (oops... lapsus?) tutto è permesso. Tra uomo e altri animali non c’è differenza alcuna, smettiamola con le “sopravvivenze culturali”... Ma cosa ci trattiene dal fare questo genere di nichilistiche considerazioni? Per Mori a trattenerci sono, appunto, le “sopravvivenze”, ma non si accorge che sostituisce dei “dogmi” con altri “dogmi”, che ai suoi occhi hanno il vantaggio di essere laici (i quali mi pare siano, anche se esplicitamente non l’ha affermato, il “benessere” dei genitori, la “libertà” di scegliere, ecc.; ma non usciamo dal seminato). Per altri, ammettendo di poter sgombrare il campo da credenze religiose e condizionamenti culturali, che cosa funge da freno inibitore? Un’innata necessità di “punti fermi”? Contingenze psicologiche? Paura ancestrale del diverso? Una fantomatica radice etica connaturata all’uomo? E da dove proverrebbe?

La vertigine di queste domande è destinata, secondo me, a rimanere tale. Ho la sensazione che l’uomo sia, “strutturalmente”, incapace di andare oltre quella che comunque resta una delle maggiori conquiste intellettuali che ha saputo raggiungere autonomamente, tuttavia irreparabilmente “insufficiente”, incompleta, anelante all’infinito: la discussione critica, ciò da cui ero partito in questo forse sconnesso intervento. Quella che lascia che siano le idee a morire al posto nostro, quelle che si sostituiscono alla violenza. Quella che cerca il noumeno ma mai lo raggiunge. L’alternativa quale sarebbe? Abbracciare un sistema di concezioni che – purtroppo – non è fondabile. Chi si ritiene capace di fondare epistemologicamente l’etica? Problema vecchissimo, ma la sua soluzione è di là da venire; qualunque fondamento presume lo sfondamento (si perdoni il gioco di parole) verso una certa dose di metafisica: vuole una specie di atto di fede. Che può essere una convenzione sociale sedimentata nel tempo, un sistema morale mutuato da una religione, moti dell’animo come la compassione di Schopenhauer. La sfida è trovare – con le idee, non con la spada – una conciliazione. Non abbiamo nulla di meglio – purtroppo o per fortuna – della ragione critica: questo è, forse, un altro atto di fede!… ma lo reputo migliore di altri. Senza sperare di abbattere tutti i limiti, passioni, pregiudizi, “irrazionalità” che fanno parte dell’uomo: si discute, solo perchè questi limiti non ci chiudano per sempre in una gabbia; anche se da quella gabbia non si riesce mai del tutto ad uscire.





Pascal afferma che, dal punto di vista dei fatti, il Bene e il Male sono un problema di “latitudine”. In effetti, lo stesso atto umano qui si chiama crimine, laggiù buona azione, e viceversa. [...] Le azioni sono dunque indifferenti, in sé e per sé: solo la coscienza di ognuno le fa diventare cattive. Il nodo misterioso che giace al fondo di questo immenso malinteso è l’innata necessità in cui si trova l’Uomo di crearsi scrupoli e distinzioni, di proibirsi una certa azione piuttosto che un’altra, a seconda che il vento nel suo paese soffi di qua o di là: si direbbe, insomma, che tutta l’Umanità abbia perduto la memoria e cerchi di ricordarsi, a tentoni, non si sa bene quale Legge smarrita.



P.A.M. Villiers de l’Isle-Adam, “Le signorine Bienfilâtre”, tr. it. in Racconti crudeli, Frassinelli, Milano 1995, pp. 1-2. (corsivo mio).

Data: 28.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Caro Maurizio...

Il ruolo di “provocatore” che svolgi è, senza dubbio, utile in una società, come la nostra, in cui assistiamo ad un pensiero tendenzialmente unico. Un ruolo, addirittura, necessario: c’è bisogno (eccome!) di seminatori di dubbi, di idee contro-corrente.

Fai bene, quindi, a “provocare”.

Ma... c’è modo e modo di provocare. C’è il modo cosiddetto “socratico”, ad esempio. E’ questo il tuo modo? A me pare che tu sia lontano anni luce dall’appassionato “ricercatore” ateniese della verità: Tu la verità non la ricerchi, non hai la consapevolezza dei limiti del tuo sapere. Tu, la Verità la possiedi: la Verità scientifica, naturalmente. Tu ti credi un “illuminato”: per questo vedi intorno a te le “tenebre” delle “superstizioni, delle “sopravvivenze culturali”. Da qui il tuo ruolo (che dimostri più nei tuoi interventi pubblici che nei tuoi libri): condurre una battaglia culturale, lancia in resta, tesa a sradicare dalla mente degli uomini le superstizioni, diffondere “les lumières de la raison”, strappare la gente all’oscurità. Un ruolo che nel ‘700 può avere avuto le sue buone giustificazioni. Ma... oggi, in un’era in cui sono tramontati gli “dèi”, ha ancora senso creare un nuovo “idolo”, un nuovo “Assoluto” (la Ragione scientifica, appunto)? Ha ancora senso idolatrare la scienza quando gli stessi scienziati hanno sempre più la consapevolezza del carattere “congetturale” delle loro discipline? Non è poi pericoloso questo nuovo “idolo”? Non è in nome della “Ragione” e della “Ragione scientifica” che si sono perpetrati delitti contro l’umanità?

Alt, alt – mi dirai: qui c’è un equivoco, qui ci sono insinuazioni che non hanno alcun fondamento!

Un equivoco, insinuazioni senza fondamento? Non è pericoloso giudicare come “superstiziose” delle “visioni del mondo” (in primis le religioni) perché prive di un supporto scientifico?

Tu obietterai che

il politeismo dei valori non impedisce a ciascuno di noi di valutare gli altri col metro dei propri valori;
lo stesso Socrate fingeva di non sapere, ma in realtà sapeva benissimo di sapere più degli altri;
la scienza non è tutta una “congettura” perché talune sue affermazioni (dal moto della Terra intorno al Sole alla gravità al ruolo strategico – nell’uomo – della corteccia cerebrale) sono certezze.
Facciamo, allora, un esempio. Prendiamo in considerazione un problema oggetto del territorio di tua competenza: quando si può parlare di “persona”? Si tratta di un quesito che non ha alcun senso per i biologi, non solo perché il concetto di “persona” esula dal loro territorio di competenza, ma anche perché, nel caso dell’embrione, una volta i nuclei dei due gameti si sono fusi (singamia), si è in presenza di un nuovo essere umano che registra una sostanziale continuità nel suo sviluppo.

Che cosa si intende per “persona”? Il concetto è maturato nel Medioevo in ambito filosofico (o meglio filosofico-teologico). Il suo significato è quello di “sostanza individua di natura razionale”. Si tratta di un concetto ancora spendibile oggi? Proviamo a spenderlo, tenendo conto, naturalmente, dei dati biologici. Una cosa pare certa (e tu lo sostieni a lungo nei tuoi libri): se per embrione si intende qualcosa di “indivisibile”, qualcosa le cui parti sono subordinate al tutto, allora l’embrione diventa un “individuo” dopo il quattordicesimo giorno (quando, cioè, non può più dividersi). Quando diventa “di natura razionale”? E, prima ancora, chi (o che cosa) si può definire “di natura razionale”? Che cosa caratterizza la “natura razionale”? L’autocoscienza, l’intelligenza astratta, la libertà... – ciò che comunemente consideriamo tipico dell’uomo rispetto all’animale? Se sì, tali caratteristiche devono essere possedute “in atto” o “in potenza” (ricorriamo sempre alle categorie della tradizione filosofica)?

Se optassimo per la prima ipotesi (il possesso in atto), dovremmo considerare “non persone” una miriade di individui umani che comunemente definiamo “persone”: neonati, handicappati psichici gravi, individui in stato vegetativo permanente...
Proviamo ad optare per la seconda ipotesi (il possesso in potenza). Anche qui il problema si fa complesso. Teniamo sempre presenti i dati “biologici”. La potenzialità è data al momento

¡ della fusione dei due nuclei (quando cioè si forma il nuovo patrimonio genetico),
¡ della nascita del primo abbozzo di sistema nervoso,
¡ oppure della formazione della corteccia cerebrale? Nei primi due casi la legge sull’interruzione della gravidanza sancirebbe un omicidio.
Optiamo, allora, per il terzo caso? Se la “persona” (il possesso potenziale delle caratteristiche tipiche dell’uomo), c’è quando si forma la corteccia cerebrale, allora si può definire morta una persona quando tale corteccia non è più in grado di funzionare: è il caso dello stato vegetativo permanente. Non è una conseguenza da poco: se la morte “personale” è caratterizzata dalla “morte corticale” (e non dalla morte cerebrale), allora non sarebbe del tutto lecito interrompere l’alimentazione artificiale ad un individuo che si trovasse in tale situazione?

Il “problema” – tu ben lo sai – è “complesso”. Sono gli stessi dati scientifici che lo rendono ancor più complicato. Ciò che possiamo affermare è solo una serie di “se... allora”. In tutti i casi, poi, ci troveremmo in presenza di conseguenze per molti “indesiderabili”: o la concezione dell’aborto come omicidio, oppure l’esclusione dal novero di “persone” di una serie di individui che, in base a visioni del mondo diffuse, consideriamo “persone”.

E allora? In assenza di risposte “certe” della scienza e della “filosofia”, non dobbiamo far riferimento alle concezioni che tu definisci “superstizioni” e “sopravvivenze culturali”? In assenza di “assoluti” (anche nel campo etico), in presenza di un politeismo dei valori, non dobbiamo, allora, puntare ad una “mediazione” tra valori etici che convivono nella nostra comunità? Che senso avrebbe una crociata di matrice illuministico-positivistica? Dove sarebbero le “tenebre”?

E’ “oscurantista” la legge sulla procreazione assistita perché proibisce la fecondazione “eterologa”?
E’ nemico dei “Lumi” chi sostiene che il bambino ha diritto di sapere chi sono i suoi genitori?
E’ “una sopravvivenza culturale da disprezzare il sostenere un modello di famiglia costituito da due “genitori” di sesso diverso e dei figli da loro “generati”?
In un’epoca in cui “Dio è morto”, vi è un’alternativa alla ricerca di un “punto di equilibrio” di valori diversi? Diceva nel lontano ‘600 il buon Locke che solo la religione che predica la tolleranza può considerarsi vera. Non è seguendo la sua lezione che abbiamo conquistato il “valore” del pluralismo etico? Non è pericoloso violare tale valore in nome di una forma “laica” di fondamentalismo? Il nostro tempo ha bisogno di nuovi “crociati” (senza croce o... contro la croce?), oppure di “tafani” che ci stimolino ad aprirci alla “complessità”?

Ciao,

Piero Carelli

Data: 28.06.2013

Autore: Mauro De Zan

Oggetto: R: Caro Piero

questa mia risposta alla tua risposta a Mori non vuole essere affatto una difesa di Mori che come ben sappiamo sa difendersi benissimo da solo. Piuttosto mi interessa trattare di alcune questioni che tu sollevi e che toccano la concezione di illuminismo, ragione etc.. Tu scrivi che Mori ha idolatrato la ragione (scritta con la maiuscola) in quanto è, o crede di essere, un “illuminato”, uno che, a differenza degli scienziati, idolatra la scienza. A me non è parso che Mori fosse su queste posizioni. Ha fatto un discorso forse un po’ affrettato sull’industrialismo, ma quel che ha detto mi è sembrato molto sensato: viviamo in un‘epoca industriale che ha sconvolto e sta sconvolgendo tutta le nostre concezioni più profonde, smettiamola di piagnucolare contro i mali dell’industrialismo e vediamo di convivere con esso; tanto con questo mondo (che è l’unico cha abbiamo) dobbiamo conviverci e quindi cerchiamo delle soluzioni per viverci meglio possibile.

In fondo ha detto quello che tutti i pensatori con la testa sulle spalle da Marx in poi hanno detto: lo sviluppo del capitalismo ha scatenato enormi potenzialità produttive che determinano nuovi modi di vivere assolutamente diversi dai precedenti. Dire che il capitale o i capitalisti sono “cattivi” e che dobbiamo “tornare indietro” è, come diceva Marx, una grande sciocchezza. Mentre Marx sembrava abbastanza sicuro di quali sarebbero stati gli sviluppi futuri della società, altri ne sono più dubbiosi; e credo che Mori si collochi fra questi. Tra prendere atto dello stato di cose (viviamo in una società altamente tecnologica e scientifica) e idolatrare questo stato di cose secondo me passa un’ evidente differenza. Insomma non fare i moralisti, non significa accettare la realtà come qualcosa di giusto in sé. Al contrario è il modo corretto per iniziare a capire la realtà senza pregiudizi e a trovare soluzioni per i nostri problemi. E qui interviene la ragione che, se intesa in senso illuministico, va senz’altro scritta sempre con l’iniziale minuscola.

Per tutti gli illuministi la ragione è sempre solo uno strumento a cui facciamo ricorso per risolvere i problemi che ci affliggono. Gli illuministi hanno sempre saputo che la ragione non è in grado di risolvere tutti i nostri problemi anche perché noi stessi non conosciamo con certezza quali essi siano in realtà: spesso infatti dei falsi problemi ci hanno occupato la mente a lungo, mentre non abbiamo dato importanza (neppure li abbiamo visti di striscio) i veri problemi. Amano scrivere ragione con la “r” maiuscola coloro che credono che essa viva fuori dalla nostra mente, nella Natura o in Dio, che essa regoli le nostre vite etc. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’illuminismo, anzi ne è la palese negazione. Quindi Mori non credo usi parlare della ragione con la maiuscola in quanto appunto si definisce illuminista: se lo facesse, se avesse questa concezione assolutista della ragione, sarebbe in palese contraddizione con se stesso.

Questo preambolo per venire al punto che più mi interessa: tu scrivi che Mori è un fondamentalista laico e che di fatto, essendo un crociato “illuministico-positivista” è intollerante perché coloro che sono tolleranti, e citi Locke in modo poco chiaro, cercano il compromesso la convivenza tra tutte le posizioni. E’ un problema che mi interessa in sé, dicevo, e quindi Mori non c’entra più di tanto. Trascuro l’espressione illuministico-positivista che non comprendo per quel che ho detto sopra, ma è un indizio di una mentalità ben radicata di matrice cattolica e forse neomarxista (di quel marxismo moralistico di cui sopra) che ritiene pericolose tutte le culture cresciute fuori e contro la tradizione. E’ corretto definire fondamentalista una qualsiasi battaglia condotta utilizzando come strumento la sola ragione? Se è così allora la filosofia, intesa come ricerca razionale, è fondamentalista perché dalla sua origine ha sempre fatto della lotta contro le false credenze la sua ragion d’essere. Che Mori sia più rompiballe di Socrate è probabile, però per esserne certi dovremmo poter calarci nella realtà dell’Atene dell’epoca dove pochi decenni prima Anassagora era stato allontanato perché disse, tra l’altro, che il Sole era una pietra grande quanto il Peloponneso. Tutti noi siamo pronti a dire che Socrate fu un uomo eccezionale e gli ateniesi degli idioti a condannarlo, però se oggi si presentasse qualcuno con la carica eversiva che Socrate doveva avere agli occhi degli ateniesi, sono certo che noi (intendo la maggioranza, non certamente chi mi legge:-) ) ci comporteremmo come gli ateniesi.

Credo che qualsiasi battaglia contro valori tradizionali sia in sé dura, tagliente, polemica; altrimenti che battaglia sarebbe? Ma per questo va detto che è segno di “intolleranza” di “fondamentalismo laico”? Io me lo chiedo a volte (ad esempio pensando alle posizioni della Fallaci), ma credo che sia sbagliata questa impostazione, almeno quando parliamo di battaglie condotte per eliminare tradizioni che col loro permanere rischiano di creare dolore e persino un pericolo per la vita di molti uomini e donne. Come sai sono un appassionato dello sviluppo del sapere del secolo dei lumi e vorrei parlare brevemente di un caso interessante: l’inoculazione del vaiolo che fu tentata a più riprese nel corso del secolo XVIII (anche in Italia), fino alla scoperta del metodo del cosiddetto “vaiolo vaccino”, cioè del vaiolo prelevato dalle mucche e iniettato ai bambini, operazione che a differenza delle altre forme di inoculazione del vaiolo si rivelò meno pericolosa. Di fronte alla scoperta che iniettando il vaiolo ai bambini si avevano buone probabilità di impedire loro di prendere il vaiolo in forma “maligna” emersero due posizioni chiare e altre più complesse. Da un lato ci furono coloro che dicevano che se il vaiolo c’era era per volontà divina (come tutte le malattie) e che l’unica cosa da fare in caso di epidemie era di pregare (lo stesso Muratori “cattolico illuminato” concludeva il suo libro Sul governo della peste con una serie di preghiere a suo dire particolarmente efficaci), all’opposto gli illuministi facevano il diavolo a quattro perché fosse estesa la pratica dell’inoculazione per il bene delle future generazioni. Altri dicevano che bisognava calcolare i costi e i benefici di una tale operazione: ad esempio alcuni dicevano che facevano bene gli inglesi a far vaccinare i loro figli perché avevano bisogno di forza lavoro, mentre in Italia era meglio che una parte della popolazione fosse spazzata via dalle epidemie per contenere la disoccupazione e il malessere sociale (non scherzo!); altri ancora dicevano che bisognava calcolare la percentuale dei bambini che morivano a causa dell’inoculazione e quelli che si sarebbero salvati grazie all’inoculazione da possibili future epidemie. Insomma un calcolo delle probabilità e poi decidere, senza cadere in facili sentimentalismi. Io credo che la prima posizione fosse semplicemente oscurantista e che era giustificata la lotta contro di essa in quanto ostacolava la soluzione del problema. Mentre sulle altre posizioni andava aperta la discussione: era meglio agire in nome del bene attuale dell’individuo, del suo bene futuro, della società, o di coloro che detengono il potere economico? Se prendiamo l’attuale situazione circa i modi di prevenire la diffusione dell’Aids nel Terzo Mondo trovate qualche analogia? Io sì, e parecchie, a partire ovviamente dalle posizioni oscurantiste di alcuni capi religiosi cristiani o islamici che vanno combattute per poter affrontare con qualche speranza di riuscita il problema. Ma anche sulle altre ci sono analogie istruttive.

Quindi essere tolleranti non significa accettare qualsiasi posizione e cercare una mediazione. Lo stesso Locke diceva che la tolleranza non andava estesa ai “papisti” che considerava più o meno dei terroristi in quanto nemici della nazione e dello stato inglese e soprattutto intrinsecamente intolleranti e infine degli atei perché riteneva che una società non potesse reggersi senza un forte legame con la divinità da cui essa dipendeva. Sarà solo J. Stuart Mill a sollevare a metà Ottocento la questione dei diritti degli atei affrontando un tema giuridico: era lecito negare ad un ateo di testimoniare in un processo perché non poteva giurare sulla Bibbia? Anche in questo caso è evidente per noi (spero per tutti noi) che il divieto è di chiara matrice oscurantista e non può essere accettato.

Ma perché riteniamo ogni volta che delle ingiustizie radicate, che solo con grandi fatiche e dolori personali qualcuno è riuscito a incrinare, siano oggi giustamente improponibili e non ci domandiamo se ancora non permangano delle ingiustizie analoghe, che semplicemente non vediamo, fino a quando qualcuno non si sforza di renderle palesi con debole luce della ragione?

Data: 28.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Risposta

Il piacere di discutere, di confrontarsi, di gridare anche il nostro dissenso. È questa la “formula” del nostro Caffé filosofico. Ed è questa – credo – la formula della stessa ricerca filosofica. Grazie, quindi, a Maurizio Mori che ha acceso il dibattito. E grazie a Mauro De Zan che l’ha rilanciato. Il bell’intervento di Mauro mi intriga e mi fornisce l’opportunità di chiarire e sviluppare il mio modesto “contributo”. Che cosa mi sono proposto col mio “Caro Maurizio…”? Prendere le distanze dal furore iconoclastico con cui Mori, in nome della scienza, si è scagliato contro le “superstizioni” e le “sopravvivenze culturali” (un furore che – a dire il vero – non si rintraccia nelle sue opere dove l’approccio ai problemi è spesso più “problematico”, più “complesso”).

Una lettera aperta, la mia, in difesa della “tradizione”, della “religione” dei padri? Una presa di posizione incapace di distinguere i “lumi” della scienza dall’“oscurità” delle superstizioni? Un inno alla tolleranza che pone sullo stesso livello i “progressi scientifici” e le “sopravvivenze culturali”? Un rozzo attacco consumato falsificando addirittura la storia? Niente di tutto questo (almeno nelle intenzioni). Io non ho scritto un saggio storico, ma un pezzo “polemico”, a tratti “ironico” (vedi l’enfasi voluta sulla “Ragione” illuministica). Sull’illuminismo storico concordo pienamente con Mauro. La storia è sempre più complessa delle nostre categorie “ingabbianti”. A chi mi sono riferito col termine “illuminismo”? Al Voltaire del Dictionnaire philosophique e delle ultime opere, al Voltaire cioè che, la bandiera dei “lumi” in pugno, lancia contro le religioni positive degli attacchi sarcastici. Ecco perché mi sono permesso di accostare il termine a quella che mi pare una “crociata laica” di Mori contro le “superstizioni”.

Fare ricorso alle “etichette” è normale. Che cosa sono, ad esempio, “l’etica della sacralità della vita” e “l’etica della qualità della vita”, di cui tanto parla Mori nei suoi libri, se non delle “etichette”, delle categorie semplificatrici? Non è un’etichetta la stessa parola “scienza”? In ultima analisi, non è lo stesso nostro linguaggio ad essere costituito da simboli-etichette generali?

Gli illuministi – sostiene Mauro – non idolatravano la ragione. È vero. Ma il Voltaire, a cui ho fatto riferimento nel contesto del mio pezzo polemico, non ha di fatto tradito la lezione empiristica sui limiti della ragione umana a cui aveva attinto, dando proprio l’impressione di fare della ragione un metro assoluto?

Veniamo agli altri interrogativi di maggior peso. Io non ho dubbi: benvenuti i “progressi scientifici”! Si tratta di progressi che non ampliano solo la “conoscenza” dell’uomo, ma anche la sua possibilità di scelta. Ma… quale il “metro” con cui noi poveri mortali scegliamo? Non lo possiamo chiedere alla scienza. Dove troviamo, allora, questo metro? Storicamente sono la filosofia e la religione che si sono occupate di problemi “etici”. Che cosa può dirci, allora, la filosofia in proposito? Di assoluto, niente. Così, almeno, credo. E lo credo non certo in omaggio alla “morte di Dio” di Nietzsche. Chi – e in base a quale rivelazione sovrumana – è in grado di dire verità assolute (sciolte dalla soggettività e dalla storia)? Platone (anche questa è una categoria) è morto. E morto, per certi aspetti, è pure Socrate: quale mai Socrate può oggi aiutarci a “partorire” la verità? Il nostro è il tempo dei “sofisti”. Di che cosa parliamo quando trattiamo di valori etici e delle stesse visioni del mondo su cui tali valori sono radicati? Di “opinioni”. Il nostro è il “tempo delle opinioni”. Opinioni che, in quanto tali, sono sullo stesso livello? Per nulla. Ognuno di noi fa propria un’opinione perché la considera più “convincente” di altre. Convincente in base a che cosa? In filosofia la forza persuasiva è data, per lo più, dall’argomentazione razionale. Ricadiamo, allora, nella trappola dell’idolo-ragione? No: noi siamo consapevoli che ogni argomento razionale, anche se fortemente persuasivo, è sempre strutturalmente “debole”. Che fare, dunque, in presenza di “opinioni” più o meno convincenti? Si può far prevalerne una sulle altre? Si può far prevalere, ad esempio, la definizione di “morte corticale” (pur avendo, a mio avviso, una notevole forza persuasiva)? Si può far prevalere la fecondazione eterologa? Chi e con quale autorità potrebbe farlo? La filosofia è un terreno di “confronto”: siamo tutti nell’agorà e tutti cerchiamo di difendere le nostre posizioni contro le altre. Non vedo vie di uscita: la filosofia è (e, credo, sarà) un campo di lotta senza fine. E allora? La filosofia (e la bioetica) è oggettivamente incapace di dettare “norme” che valgono per tutti. L’unica via di uscita è quella “politica”. Ma chi decide (e deve decidere) in politica? Chi deve esprimere la “volontà generale” di Rousseau? Chi è in grado di cogliere il “Bene” generale al di là degli interessi privati? Chi è capace di scegliere col metro dell’intelletto “puro”, “libero” dalle passioni, dai punti di vista particolari? I filosofi al potere? Robespierre, Stalin…? Non vi è alternativa – se si vuole evitare il totalitarismo – alla conta banale dei voti. Le maggioranze, certo, possono cambiare e, quindi, è legittimo battersi contro una legge con l’obiettivo di costruire intorno alla propria proposta una nuova maggioranza. Ma è lecito, in un tempo in cui si confrontano “opinioni”, tacciare di “oscurantismo” le posizioni che non si condividono? Non si rischia di scivolare in un “fondamentalismo laico”? Non vi è nessuno “illuminato”, come non vi è nessuno che , ahimé, si trova nelle “tenebre”. Stiamo parlando dell’ambito filosofico. Qui non è in ballo la scienza (con i suoi “lumi” contro le “superstizioni”) perché essa non ha alcuna competenza in campo etico. Questo significa “tollerare” – in nome di un irenismo astratto, in nome del nuovo idolo del pluralismo - qualsiasi concezione, compresa l’infibulazione? Niente affatto. Locke così afferma: “nella tolleranza io vedo il più importante segno distintivo della vera chiesa”. Ma, nella stessa Lettera sulla tolleranza, quando parla di Stato, si affretta a chiarire i limiti (che ha evidenziato Mauro) di tale tolleranza. Come potremmo noi rinunciare al patrimonio di “valori” (delle opinioni che noi consideriamo “fortemente persuasive”) che abbiamo conquistato con lotte?

Non sono un difensore della tradizione (chi mi conosce, lo sa). Ritengo, anzi, quanto mai utile il ruolo del provocatore” (alla Mori o anche alla stessa Fallaci). Ma ho anche paura del “fondamentalismo laico” che può essere pericoloso (la storia dei totalitarismi laici insegna) almeno quanto quello religioso.

Certo, tutto è “storico”. Anche queste nostre riflessioni. Qualcuno – chissà – domani potrà ridere delle colonne d’Ercole che noi abbiamo eretto, come oggi possiamo ridere dell’idea di Locke secondo cui lo Stato non deve tollerare né cattolici né atei. Tutto è storico. Ma questo è il nostro tempo in cui dobbiamo vivere, orientarci, decidere: il tempo del pluralismo, dei valori liberali e della democrazia.

Data: 28.06.2013

Autore: Mauro De Zan

Oggetto: Chiarimento

Caro Piero ti ringrazio per il tuo nuovo intervento che mi permette di chiarire meglio quanto volevo dire nel mio precedente intervento. Sono pienamente d’accordo che la filosofia è il luogo del libero confronto tra opinioni e che non vi è alcun metro assoluto che permetta di dire quale opinione è del tutto giusta e quale del tutto errata. Però non credo che siamo in una situazione in cui ci si debba limitare a prendere atto che la maggioranza ha sempre ragione. Dobbiamo prendere atto che le leggi vanno rispettate, ma vanno anche discusse e criticate. E questa è già una grande conquista a cui siamo giunti grazie a uomini di buona volontà che hanno duramente lottato perché ciò fosse possibile almeno in alcuni paesi tra cui , fortunatamente, il nostro. Come tutte le conquiste è però precaria e dobbiamo vigilare perché questo patrimonio non sia disperso. Per questo è bene vigilare sia nei confronti di chi ha nostalgie teocratiche e/o totalitarie. Ma non credo che gli "illuministi" che hanno fortemente contribuito alla nascita e allo sviluppo di questo sistema, di questa società tollerante o aperta, possano essere un serio pericolo per esso. Semmai essi sono i migliori guardiani della libertà di opinione e del rispetto delle leggi approvate dalla maggioranza, anche quando queste sono impregnate di spirito antilluminista. Non credo neppure che la filosofia illuminista sia incapace di indicare dei principi universalmente validi anche se non assoluti; cioè principi "cresciuti" lentamente, ma del cui valore oggi siamo tutti convinti. Nel precedente intervento facevo l’esempio del diritto di ciascun cittadino di testimoniare in un processo: oggi è un diritto che riteniamo non possa essere tolto a chi ha o non ha certi credi religiosi o ideologici e quindi lo riteniamo universale.

Anche in campo etico credo che la riflessione avviata dagli "illuministi storici" e proseguita dai loro continuatori abbia prodotto qualcosa, cioè dei principi inderogabili. Primo fra tutti quello che è nostro dovere cercare di alleviare le sofferenze delle persone intervenendo con atti concreti. Certo anche diverse religioni si proponevano simili obiettivi; la differenza è che gli illuministi hanno cominciato a pensare di affrontare alcune di quelle situazioni di sofferenza non richiamandosi a particolari dogmi ritenuti assoluti e/o a tradizioni nate in contesti storicamente diverse, ma analizzando il singolo problema e cercando soluzioni razionali, intendo possibili, per esso. Proviamo ad elencarne alcuni: lotta contro le epidemie, la pratica della tortura, lo schiavismo, la pena di morte, la castrazione dei fanciulli per farne voci bianche, il rispetto delle donne e la loro eguaglianza etc. Tre secoli fa ( e in alcuni casi pochi decenni fa) nessuna di queste situazioni di sofferenza era presa seriamente in considerazione. In tutti i casi c’è stata sempre una forte opposizione agli innovatori e talvolta le loro proposte hanno suscitato all’inizio solo grande ilarità.

E’ l’ approccio insieme profondamente umanistico e pragmatico che mi ha sempre affascinato dell’illuminismo. Ma in ognuna di quelle situazioni coloro che vi avevano visto delle sofferenze (dove la stragrande la maggioranza vedeva solo degli eventi normali, inevitabili, naturali, delle sane tradizioni etc..) hanno dovuto lottare con durezza polemica: nessuna di quelle conquiste è venuta da sé e nessuna si mantiene da sé. Certo Voltaire da vecchio può aver avuto qualche caduta di tono nella sua verve polemica; tutti diventando vecchi diveniamo più rigidi, però purtroppo pochi sanno scrivere qualcosa di paragonabile alle "Lettere inglesi", a "Micromega" o al "Candide". Quegli uomini (Voltaire compreso, dai) non sono però stati dei "crociati", dei "fondamentalisti"; sono state delle brave e coraggiose persone che hanno dedicato la loro esistenza al benessere collettivo, che è qualcosa di molto concreto e "misurabile"; qualcosa che c’è e che fa la differenza tra una vita degna di essere vissuta e una indegna.

Certo la lotta per eliminare le sofferenze è infinita, non solo perché siamo mortali, ma anche perché sorgono sempre nuovi tipi di sofferenza. Mi riferisco sia alle sofferenze fisiche (fame malattie etc) che a quelle morali ( non rispetto della persona, del suo corpo, divieto di accesso a beni e tecniche). Il primo caso sembra abbastanza semplice: chi non è a favore di interventi finalizzati a combattere vecchi e nuovi flagelli? In realtà se osserviamo con attenzione le cose spesso sono rese piuttosto complicate da coloro che ritengono di poter affrontare queste situazioni rifacendosi a dottrine rigide. Quando il Papa o Bush [che però ultimamente si è in parte ricreduto] si oppongono di fatto alla diffusione dei preservativi tra le popolazioni dell’Africa subsahariana dove l’epidemia dell’aids ha raggiunto cifre spaventose, adducendo argomentazioni che a loro dire trovano la loro radice nel messaggio di Cristo, che contributo danno alla lotta all’epidemia? Non è lecito opporsi con vigore a queste posizioni? L’abate Galiani diceva: "Io non parteggio per nessuno. Mi oppongo a chi sragiona". Ecco, appunto: chiunque voglia portare il suo contributo ad una soluzione ragionevole del problema è ben accolto, qualunque sia la sua fede, anche se la sua opinione è diversa dalla mia; ma non dobbiamo porre sullo stesso piano chi invece si rifiuta di essere ragionevole in nome di presunti principi assoluti e comunque anacronistici, e per ciò non porta nessun contributo alla soluzione, ma crea solo confusione.

Più complicata la situazione per quel che riguarda le sofferenze "morali", in particolare per quelle che nascono dal divieto di accedere a strumenti e tecniche che possono portare alla soluzione di un problema che crea sofferenza. Se oggi una coppia che non può avere figli in modo "naturale" sa che ci sono delle tecniche che gli possono far superare questo handicap è ovvio che soffre se queste tecniche gli vengono vietate. La maggioranza (forse solo parlamentare) ritiene lecito questo divieto perché in fondo queste coppie possono rinunciare al loro desiderio di generare in modo "innaturale". Non si tratta, come scrivi, di "imporre" la fecondazione eterologa, ma semplicemente di "concederla", così come si concede ad una persona affetta da qualche handicap l’uso di farmaci, tecniche, strumenti (anche legislativi) che gli rendono più semplice e degna la vita. Nulla di più e nulla di meno.

Caro Piero io mi auguro solo una cosa: che qualcun altro intervenga, perché se no facciamo prima a discutere per telefono o su qualche panchina dei giardini.... Ciao, Mauro

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