SI PUÒ MENTIRE O NON SI PUÒ MENTIRE? BATTIBECCHI TRA FILOSOFI - DALLA TESI DI LAUREA DI GABRIELE ORNAGHI

13.02.2012 21:00

 

“Caro uomo, sii onesto! Non mentire” - Kant
 
“Caro prof. Kant, se dovessi mentire per salvare la vita ad un mio amico, ad un fratello? Non sarei comunque un uomo onesto?” - Constant
 
Che fareste se un assassino si presentasse a casa vostra e vi chiedesse se sapete dove si trova il vostro amico che lui vuole uccidere e che voi state nascondendo? Il “rigido” Kant e il “moderato” Constant dialogando tra di loro hanno cercato di far luce su un tema tanto antico quanto il pensiero stesso: la morale e la sua applicazione a casi specifici. Grazie al loro dialogo possiamo mettere a nudo noi stessi e vedere con quale logica applichiamo l’etica universale.

Dibattito

Data: 13.06.2013

Autore: Mauro Spelta

Oggetto: Etica

Per parlare di etica si deve affrontare un percorso articolato. Questo percorso, da seguire nell'ambito della realtà, nella pratica, è l'unico che puo' affrancarci da qualsiasi affettazione di ordine relativistico o dogmatico.

Innanzi tutto si deve procedere dall'analisi delle emozioni personali , le quali sono sempre di ordine eudaimonistico, ovvero in tensione verso la realizzazione della propria vita, verso ciò che viene definita una Flourishing Life. Questa tensione si realizza tramite la ragione pratica nell'interazione, di aristotelica memoria, tra il particolare e l'universale. Chiunque abbia letto l'Etica nicomachea conosce approfonditamente ciò di cui sto parlando. Una componente della ragion pratica e' l'immaginazione. Essa si configura in due modalità; la prima è la capacità di associare i fenomeni in un certo ordine, dando una costituzione di senso alla realtà che percepiamo, la seconda e' una forma di simulazione vicaria del metodo di esperienza per prova ed errore che se applicato, potrebbe avere esiti nefasti nell'ambito del reale. E' una forma di fantasia che ci permette di prevedere situazioni che potrebbero coinvolgerci in modo del tutto negativo nello svolgersi della vita. Questa facoltà ci permette, innanzi a fatti che percepiamo, attraverso la conoscenza di casi specifici afferenti le altrui vite o attraverso la lettura di opere letterarie, quali siano le situazioni che vogliamo evitare condizionino la nostra vita impedendo la sua realizzazione. Questa prassi ci pone innanzi a fatti che riteniamo infausti e che prudentemente, ci inducono ad organizzarci perche' non possano mai coinvolgerci nel futuro, in modo che “non accadano anche a noi”. Tale forma di tutela ci impone di porre le basi di una organizzazione, personale ed eudaimonistica. Si deve sottolineare che questa organizzazione è del tutto personale e soggettiva, e certo non sarebbe condivisa da altri soggetti agenti, la cui concezione della vita è certamente diversa dalla nostra. Serve quindi trovare un metodo che ci permetta di isolare dei valori o dei disvalori che non siano prettamente soggettivi e che possano essere condivisi nella comunita' cui apparteniamo. E' possibile adottare questo metodo se si tratteggia la figura di una specie di spettatore imparziale, il quale, in modo amichevole e simpatetico ma distaccato dal fatto cui assiste, riesce ad isolare quei valori o quei disvalori che possano essere condivisi anche da altri spettatori. L'imparzialità, richiede che detto spettatore nella costituzione di senso, nell'ordinare i fenomeni cui assiste, non sia direttamente interessato nella vicenda e non veda coinvolti i suoi propri interessi personali in quanto tutto questo coinvolgerebbe i suoi giudizi e credenze che costituiscono le sue precomprensioni ( le conoscenze che possiede e per mezzo delle quali legge abitualmente il mondo ), fuorviandone il giudizio imparziale. Questa forma di passione gli impedirebbe certamente di isolare i valori in modo disinteressato rendendo di fatto impossibile la loro condivisione.

La figura dello spettatore imparziale ipotizzata da Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali ) è prodroma della possibilità di isolare valori condivisi. Egli riesce a leggere i fatti, non solo guardandoli dal proprio punto di vista ma cercando di empatizzare il rapporto, di mettersi completamente nei panni dell'altro, senza però dimenticare i propri vissuti ed i propri scopi nella vita. In questo modo può sviluppare una forma di compassione che è diretta all'altro ma è anche autoreferenziale nel volere evitare tali situazioni e quindi a tutelarsi organizzandosi.

Questa forma di esperienza e' ottimale se perpetrata nella lettura di opere letterarie che sono quelle opere che ci permettono di conoscere realtà afferenti comunità o società esterne a quelle cui apparteniamo. E' ottimale perchè la lettura non ci impelle, ci concede il tempo che ci vogliamo prendere, contrariamente a quando assistiamo ad una scena che dobbiamo percepire rispettando i tempi della scena stessa e che non si ripresenterà più. La lettura può essere rilettura, approfondimento, e accettato il fatto che i problemi etici non si presentano in natura, ma vengono costituiti e formulati attraverso il pensiero e l'immaginazione, ecco che l'opera letteraria sarà il miglior viatico per sommuovere l'anima del lettore che nel peggiore dei casi, seppur leggendo in modo anche distratto, non potrà' sottrarsi alla meraviglia, allo sconvolgimento dell'anima in merito ai fatti di cui viene a conoscenza, costringendolo perciò a riflettere in modo spontaneo.

Ma ancora, seppur avendo notevolmente modificato le modalità di acquisizione e elaborazione dei giudizi- valori eudaimonistici, questi sono soggettivi.

Nel confronto con gli appartenenti la comunità o la società, potranno essere estrapolati quei valori di ordine universale che tutti accetteranno come funzionali ad una forma eudaimonistica per la propria vita ed a una forma di democrazia nell'ambito sociale.

La limitazione nell'ambito sociale ristretto, pone una grande limitazione all'evoluzione del pensiero etico in quanto la condivisione dei valori rischierà, nell'immobilismo dei valori condivisi nell'ambito di una comunità/società, di produrre in un circolo problematico, una forma di totalitarismo in cui gli stessi fini si configureranno come mezzi. Oppure si potrà sviluppare una forma di relativismo in quanto, operando continuamente e solamente su forme cristallizzate nella società, i valori morali determinati non porteranno ad alcuna forma di evoluzione come accade nella deduzione da premesse, in cui la verità è trasportata da queste ultime alle conclusioni senza subire alcuna alterazione. Come ovviare tale limitazione? Ebbene, lo spettatore imparziale deve arricchirsi di una nuova connotazione. Quella del poeta giudice. E' la figura del poeta, colui che ha la capacità di illuminare le cose come il sole le illumina. Non dimentichiamo che siamo nell'ambito della ragion pratica e non ci deve stupire che sia il poeta colui che riesce, tramite l'immaginazione a concepire l'ingiustizia e trasmettercela, colui che, tramite la ragion pratica, che non e' del sapiente, del filosofo teoretico ma è del saggio nella continua interazione con la realta', nel confronto tra particolare e generale, riesce, evitando l'orrore sistematico della deduzione, a permettere l'evoluzione del pensiero etico, non confinandolo nel relativismo o nel dogmatismo. Qui la la ragion pratica, si configura quale metro di misura che, come il famoso regolo di piombo, detto anche regolo di Lesbo, riesce a misurare qualsiasi superficie il cui profilo non sia rettilineo riuscendo ad aderire perfettamente a questi.

L'immaginazione in questo caso, non si configura più come una facoltà che permette solo una costituzione di senso, qui si presenta come una forma di fantasia che, sempre traendo spunto da opere letterarie, da fatti narrati o cui si è assistito, riesce ad evidenziare i problemi etici, permettendo anche di eliminare quella forma gestaltica che riesce a limitare i nostri desideri e le nostre legittime aspettative nell'ambito del sociale, facendo in modo che colui che soffre non si accontenti più del sollievo dalle proprie sofferenze ( e non la completa eliminazione delle stesse) come il massimo miglioramento possibile della sua condizione. Il poeta e' colui che davanti ad una vetrina di una salumeria riesce a vedere una serie di cadaveri dissezionati, posti in bella vista, che sono in attesa di essere divorati. Il poeta è colui che davanti ad una scena passata al telegiornale in cui si parla dell'importazione di primati destinati alla vivisezione, come un pugno nello stomaco vede un animale che disperatamente tenta di fuggire terrorizzato alla sua sorte di sofferenza che, come essere dotato di immaginazione al pari dell'uomo riesce a prefigurarsi e, come un bambino indifeso innanzi alle attenzioni dell'orco, colto da timor panico e disperazione, perdendo ogni speranza in un aiuto che non potrà mai venire dall'insensibilità comune, cerca di aggrapparsi ad un misero appiglio da cui viene barbaramente strappato con violenza inaudita da un essere umano che, in nome della ricerca scientifica, riesce a trattare un essere senziente come un mezzo, un utensile, ipostatizzando la sua essenza in un nulla nell'oblio. Il poeta e' colui che fa in modo che la parola si faccia carne, colui che in modo quasi sadico, vi prende le budella e ve le torce, è colui che vi scuote l'anima, che vi risveglia attraverso le vostre emozioni e che vi sa portare ad essere compassionevoli, che vi prospetta il problema etico in modo che nell'interazione con gli altri lettori riusciate a comprenderlo e condividerlo, in modo che nella evoluzione del pensiero etico-morale che trova la sua naturale destinazione nella politica, questa intesa nella sua accezione essenziale di ambito legiferativo, si possa legiferare a favore di quelle norme morali condivise.

Questo è il pensiero etico-morale, che non puo' essere prodotto dalla filosofia teoretica, dalla sophrosyne ma solo dalla saggezza, dalla phronesis che e' caratterizzata dalla ragion pratica che, con l'immaginazione e' in grado, nella continua interazione con la realta', nel confronto tra particolare e universale, di produrre il pensiero morale, con le modalita' sopra illustrate, sempre in evoluzione e tendente, come già accennato, verso il bene comune, verso la democrazia.

Data: 13.06.2013

Autore: Gabriele Ornaghi

Oggetto: Fantasmi relativisti

28/II/2012
Gabriele Ornaghi



In un recente articolo, apparso sul Corriere della Sera di giovedì 23 febbraio , Claudio Magris mette in luce come rinunciare alla ricerca di un fondamento per la filosofia, trasforma la stessa in un optional morale. L’articolo di Magris ha lo scopo di denunciare il falso relativismo che oggi domina: c’è un relativismo – scrive infatti Magris – che oggi detta legge come un dogma pacchiano, rinunciando a priori a cercare (…) una qualsiasi verità; rinunciando ad affermare qualsiasi valore, ponendo tutte le scelte morali sullo stesso piano, come in un menu in cui ognuno sceglie secondo i gusti e le reazioni delle sue papille gustative. In questa sua caccia del “fantasma relativista”, Magris mette in luce come ciò non venga operato solo da autori Cristiani, primo fra tutti Benedetto XVI, ma anche da pensatori “esterni a qualsiasi chiesa”: Tito Perlini, Todorov, Massimo Teodori e Dario Anselmi, per citarne alcuni.

Ciò che a mio avviso emerge d’importante da questo articolo è il pericolo che il relativismo, quello denunciato da Magris, porta con sé. Pur condividendo il pensiero di Joseph Ratzingher, devo concordare con Magris che esistono “due tipi” di relativismi: uno assoluto e negativo, e uno che potremmo definire positivo e che ci porta ad aprirci all’altro. Il relativismo assoluto è quello che rischia di affascinare di più l’uomo contemporaneo. Esso si mostra infatti, come la soluzione ideale a qualsiasi scontro di idee: potendo ammettere tutto e il contrario di tutto, “a” e “non-a”, nel medesimo tempo, evitiamo di “litigare tra di noi”, di creare motivi di divisioni. Ma è davvero così? Il relativismo assoluto, è davvero la soluzione “rosea” a tutti i nostri problemi? Oppure è una comoda e facile scappatoia?

Anche il professor Carelli, dal suo punto di vista di relativista, nel suo intervento on-line ci mette in guardia dal relativismo usato tout court. Va sottolineato anche il fatto che tentativi di analisi relativistica della morale sono già stati fatti nella storia. Henning Ritter nei suoi saggi intitolati Sventura lontana2 , mostra come il tentativo operato da Diderot di analizzare la morale tramite casi messi sotto la luce del relativismo, abbia condotto l’uomo (nel caso ipotetico) all’immoralità .

Il relativismo che Magris denuncia è l’assenza della ricerca di verità. È “l’epoca del buio” che più di tutte dobbiamo temere. Ma cosa centra con il nostro tema della fondazione della morale extra teologica? Il relativismo, a mio avviso, nella formula presentata da Magris nel suo articolo rischia di diventare il terreno sul quale fondare la nuova morale. Se effettivamente affermiamo che fuori dal discorso teologico-metafisico non possiamo fondare la nostra morale, il rischio che corriamo non è, a mio avviso, quello di divenire automi morali ma piuttosto quello di relativizzare tutto e quindi di concedere tutto. Non nego che la morale teologica, una morale basata su di uno stretto rapporto con Dio che è Padre e Creatore, abbia valore, ma la mia preoccupazione è per chi non crede o crede in un’entità diversa. Come possiamo vivere in una società che è, sì un piccolo villaggio globale, ma al cui interno devono necessariamente convivere culture, credi, filosofie diverse? Ponendo come regola di vita il relativismo? O fondando razionalmente regole morali (che magari esistono già nel nostro mos maiorum) condivisibili da tutti?



1 - Se il relativismo teme la verità. di C. Magris

2 - Henning Ritter, Sventura lontana, Adelphi 2007

3 - Ibiden, pag. 42

Data: 13.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Oltre il relativismo

Sacrosanta ma, ahimè, illusoria l’aspirazione a dare un fondamento oggettivo all’etica. Dobbiamo, allora, rimanere intrappolati nella rete del relativismo?

Pericoloso il relativismo? Non è invece l’opposto – l’assolutismo – ad essere pericoloso, anzi pericolosissimo? Ricordo bene la crociata di qualche anno fa di Ratzinger-Pera e ricordo bene la supponenza di certi cosiddetti “laici”. Una crociata reazionaria, fondamentalista, nemica dei Lumi, la loro?

Io sono un relativista (non credo che all’uomo sia dato accedere alla Verità assoluta e, tanto meno, a una morale assoluta), ma il relativismo mi fa paura o, meglio, mi fa paura una sua possibile deriva. Dobbiamo, in nome del rispetto delle altre civiltà, in nome del multiculturalismo, tollerare tutto, anche la pratica (un rito millenario in alcune culture) della infibulazione? Io dico “no” perché la considero lesiva della dignità della donna.

Nessuna contraddizione: non sto surrettiziamente facendo entrare dalla finestra i valori assoluti che ho cacciato dalla porta. No. Voglio solo dire che esistono dei valori “fondamentali” che l’uomo si è storicamente costruito. L’uomo è, sì, un animale, ma un animale che nella sua lunghissima evoluzione, nella dura lotta per la sopravvivenza e per la convivenza, ha inventato regole, comandamenti, imperativi: non uccidere, onora il padre e la madre, non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te (una regola, quest’ultima, che precede di gran lunga l’avvento del Cristianesimo). Regole elaborate per lo più da reggitori di popoli. Regole, cioè “valori”. Come sono valori quelli creati nell’età moderna da pensatori e dissidenti che hanno vissuto, anche sulla propria pelle, il dramma delle persecuzioni religiose e politiche: valori che ruotano intorno all’infinita dignità di ogni uomo, inclusa la libertà di coscienza, inclusa la stessa libertà di religione (un valore sconvolgente per tutte le “Chiese” del tempo), valori poi codificati e immortalati da solenni Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Sono questi i valori che fanno da collante delle società cosiddette “civili”. Valori “convenzionali” - stabiliti storicamente da uomini -, non “naturali”, ma ugualmente inalienabili, “inviolabili”. L’uomo come “fine”: è questa la grande “conquista” della modernità che riscopre, a dire il vero, un valore di base del Cristianesimo, ma a lungo tradito da tutte le Chiese “ortodosse”.Già, l’uomo è un “fine” ed è solo in tale logica che il fine giustifica i mezzi.Ecco perché, a mio avviso, va visto con un certo sospetto il relativismo (o un suo modo fin troppo disinvolto di considerarlo): niente, è vero, è assoluto, ma esiste un patrimonio di valori che l’umanità ha conquistato a cui non possiamo rinunciare, neppure di fronte alla crescente contaminazione con culture diverse.

Ha quindi perfettamente ragione Luca Lunardi: “da qualunque prospettiva si voglia partire, fosse anche relativista, non è possibile non darsi almeno un insieme minimale di assunti etici trasversali, se vogliamo che anche la più eterogenea società multiculturale riesca a stare insieme senza disintegrarsi”.

Regole, valori, che devono valere per tutti. Valori morali e valori civili, allora, si identificano? Il “diritto”, certo, recepisce valori morali e pure valori che hanno alle spalle una lunga tradizione religiosa, ma non li assorbono. Non è un caso che vi siano leggi che rinviano alla “obiezione di coscienza”, rinviano cioè a uno spazio che attiene alla sensibilità etica individuale: è solo l’individuo, ad esempio, che può decidere del suo destino finale nel caso si trovasse in futuro nello stato vegetativo permanente; è solo l’individuo (in questo caso una donna) che può scegliere se sacrificare la propria vita per salvare la vita del figlio che ha in grembo o, al contrario, sacrificare il figlio. Scelte che ciascuno ha il dovere di rispettare. Scelte che possono diventare anche drammatiche di fronte a dei casi-limite in cui in gioco ci sono più soggetti: salvare un gemello siamese a scapito dell’altro, staccare la spina (contro ogni legge) per eseguire la volontà di un malato terminale di Sla. L’animale si è evoluto ed ha creato un tesoro giuridico-morale inestimabile (anche il valore-diritto a “essere diversi, autentici”, a “essere fedeli a se stessi”, come scrive Zygmunt Bauman, Il buio del post-moderno, Aliberti Editore, Roma 2011, p. 57), ma - ahimè - ancora oggi spudoratamente violato (mi permetto ancora di suggerire la lettura de Il libro nero dell’umanità di Matthew White).

Un grazie sincero a Gabriele Ornaghi che, pur così giovane, ci ha stimolati con tanta autorevolezza.

Crema, 24 febbraio 2012

Piero Carelli

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