TUTTA COLPA DI GRETA, di Patrizia de Capua

01.04.2020 09:00

 

Per chi canta il gallo?

 

Domenica 29 marzo 2020. Ore 7.38 solari. 8.38 legali. Il gallo canta. Ma su che orario è sintonizzato? È avanti? È indietro? È confuso? Semplicemente è sintonizzato sul suo orario, che noi umani non riusciamo a interpretare. Le tortore tubano con quel tu-tuu-tu, telefono indeciso fra libero e occupato, anche loro secondo il proprio ritmo, sempre in cerca di una compagna: d’inverno, in primavera, in qualunque stagione. I codirossi svolazzano solitari. Le cinciallegre in coppia, i passerotti in gruppo, per prendersi gioco, velocissimi e organizzati, dei grossi merli che lottano fra loro contendendosi il territorio ricco di briciole. Lontane le cornacchie allevano piccoli che ancora suonano come trombette della fiera, prima di diventare rauche e sgraziate alle nostre orecchie.

La magnolia è già sfiorita, ed ora getta foglioline verde chiaro. Gli alberi da frutta sono un tripudio di bianco e varie tonalità di rosa, dal pallido al fucsia. Tutto secondo copione.

 

Ma allora che succede? Il silenzio è rotto solo da scampanii preordinati, che invitano a messe che non verranno celebrate, e sirene: col fiato sospeso, seguiamo l’ipotetico percorso dell’ambulanza cercando di indovinare se sta raggiungendo persone care che non rivedremo mai più, neppure da morte. Chiusi in casa ci aggrappiamo a bollettini quotidiani che forniscono un arido elenco di numeri non sempre attendibili e mai omologabili a quelli emessi da altre nazioni. Protocolli saltati per cortocircuito, decreti che si susseguono affannati, incuranti di elefantiache trafile burocratiche, informazioni che ci sommergono in un marasma di dubbi, nella migliore delle ipotesi, e profezie, nella più nera.

I DPCM: vietato morire

Ne abbiamo visti tanti, di DPCM. Dapprima prudenti (23 febbraio), progressivamente allarmati, ma con limiti territoriali circoscritti (9 marzo), in seguito allarmanti, estesi all’intero territorio nazionale (11 marzo), e ancora più stringenti (22 marzo), con sospensione di “tutte le attività produttive industriali e commerciali, ad eccezione di quelle indicate nell’allegato 1”, che peraltro potrà essere modificato, e infatti viene modificato (25 marzo), con l’avvertenza che “le imprese le cui attività sono sospese per effetto del presente decreto completano le attività necessarie alla sospensione entro il 28 marzo 2020”.

E così dapprima ci siamo astenuti dall’aperitivo serale, ma abbiamo continuato ad uscire a cena; poi abbiamo rinunciato a cene, teatro, cinema, palestre, piscine, incontri culturali, continuando a frequentare il bar della colazione, perché il cappuccino non è pericoloso, ma lo spritz sì. Passeggiavamo in campagna nelle giornate di sole; qualcuno portava il cane a “sgambettare” (orribile neologismo che evoca scherzi infantili, assolutamente estranei ai cani), altri proseguivano nell’abitudine di running, jogging, footing. Molti si recavano dal barbiere o dal parrucchiere; altri in lavanderia. Il mercato era chiuso, riaperto, richiuso per l’abbigliamento, ma con palesi vuoti fra le bancarelle; gli alimentari, dopo aver resistito un po’ più a lungo, scomparivano con la chiusura di tutti i mercati rionali. Alla fine abbiamo dovuto rinunciare a parrucchieri, lavanderie, centri benessere, centri termali, sociali, ricreativi, nonché a corse di ogni tipo. Senza esitazioni, invece, scuole chiuse, visite agli anziani ricoverati nelle case di riposo sospese; cerimonie religiose, dopo un primo tentennamento, abolite pure quelle. Vietato sposarsi. Vietato perfino morire, unico divieto disatteso.

Ribadisco: che succede? È proprio vero che, come ricorda Gabriele nella prima comunicazione di Filosofia e musica per vivere la crisi, “tutto scorre”? O forse l’amico Tiziano vuole aggiungere qualcosa…

Il fatto è che faticosamente, per prove ed errori, provando e riprovando, qualcuno sta tentando di definire che cosa è essenziale per noi e per la nostra sopravvivenza. Nel linguaggio dei decreti, “attività indifferibili da rendere in presenza”, “servizi minimi”, “servizi di pubblica utilità ed essenziali”, elencati con relativi codici nell’allegato 1 del DPCM 22 marzo 2020. Elenco in vigore fino a quando?

La vita che basta a se stessa

Ripartiamo da quegli antichi saggi che provarono a insegnarci la vita che basta a se stessa. Diogene cinico, per esempio. Di lui Diogene Laerzio afferma che i cittadini di Corinto, dove pare sia morto, gli dedicarono una statua di bronzo su cui scrissero: “… tu solo insegnasti ai mortali la dottrina che la vita basta a se stessa e additasti la via più facile di vivere”. Più facile? Nella traslitterazione settecentesca di Francescantonio Grimaldi quelle parole suonano così: “ …solo segnasti a noi la via/del viver ben, quanto in se stessa basta,/acciò l’egro mortal felice sia”. Ma Grimaldi è illuminista, e la sua traduzione è intrisa di sensismo edonista. Eppure poteva essere felice l’inventore del sacco a pelo, che abitava in una botte, cercava l’uomo andandosene in giro con una lanterna, vivendo in modo anticonformista col rifiutare ogni convenzione del consorzio sociale e rispondendo con paradossi alle domande dei curiosi. Magari nelle calde notti mediterranee gli bastava un mantello raddoppiato, e la botte era una baracca, e la lanterna una metafora, e il cibo crudo una provocazione antesignana di altre roboanti provocazioni contro la civiltà: pare che proprio questa gli sia costata la vita, conducendolo a morire di colera per aver inghiottito un polpo crudo. D’altronde giudicava che la morte non fosse un male: “come potrebbe esserlo, se quando è presente non ce ne accorgiamo?”. Epicuro imparerà. Ma ciò che più conta sono appunto quei paradossi , come quello di definirsi un cane. Un cane non ha bisogno di abiti, né di coppe per bere. All’uomo bastano le mani a conca. Però conserva una bisaccia. Avversario di Platone, l’aristocratico raffinato che disprezza gli usi rozzi di Diogene, il cinico si accontenta di lavarsi da solo la verdura, pur di non essere costretto all’adulazione dei potenti. E al potentissimo Alessandro che, accorso a fare la conoscenza di questo saggio, gli domanda che cosa può fare per lui, risponde fiero: “levati, che mi fai ombra”. La libertà di vita e di parola innanzitutto. Diogene come Socrate impazzito.

Perché impazzito? Già Socrate era abbastanza pazzo, cioè anticonformista. Non insegnava, perché non sapeva nulla, ma i giovani cercavano di imparare da lui, di prenderlo ad esempio, di capire come facesse a bere e mangiare senza freni (almeno senza freni secondo loro) e a rimanere sveglio e sobrio dopo un banchetto in cui tutti s’erano addormentati mezzi sbronzi. E gli adulti si domandavano come potesse vivere senza farsi pagare, e come riuscisse ad ammaliare tanti fanciulli, piantandoli in asso quando erano ben rosolati. La differenza fra il maestro di Platone e il filosofo cinico è che il primo si attirò una condanna a morte per aver insegnato ai figli a ragionare con la propria testa anziché obbedire ciecamente ai padri, e il secondo visse da individualista, infischiandosene persino del padre, se è vero che gli fu affidato dal padre banchiere il conio della moneta, e che egli la falsificò, così che “il padre fu imprigionato e morì”. Socrate può fare a meno di farsi pagare dai giovani che accorrono a dialogare con lui, perché probabilmente sponsorizzato da discepoli ricchi. Diogene riflette a modo suo sul valore delle merci, e conclude che “oggetti di gran valore si vendono a minimo prezzo, e viceversa: così una statua è venduta per tremila dracme, un quarto di farina per due centesimi”.

L’essenziale non è per tutti

Essenziale. Che cos’è? Avere un riparo dalle intemperie? Potersi procurare il cibo quotidiano? Poter pensare, esprimersi, dialogare in libertà? Tutto ciò equivale a “poter vivere”? Ma allora perché non tutti hanno una casa, non tutti possono godere del pane quotidiano, non tutti godono dei diritti fondamentali di libertà? Poter vivere come, dove, quando?

Ci scandalizziamo nell’udire la risposta di Maria Antonietta a chi le riporta le lamentele del popolo senza pane: “dategli brioches”. Ma noi quale preferiamo? Vuota sfoglia francese o austriaca? Ripiena marmellata o integrale al miele? Curcuma? Semi di chia? Cioccolato? Ma fondente o Nutella? Con o senza uvette?

Ahimè, quanto poco significa l’abusato aforisma feuerbachiano “l’uomo è ciò che mangia”, forse frainteso fin dall’inizio. Prima o poi dovremo chiarire che cosa mangia, dove e come mangia, con chi: crudo o cotto? Mani o posate d’argento? Fast food o ristorante di lusso? Mensa aziendale o cucina di casa? Soli o in convivio amicale? Cibo industriale o creazioni di chef famosi? Carnivoro, vegetariano, vegano, o… ecc. ecc.? E soprattutto se mangia. Perché molti, troppi nel mondo muoiono di fame, e nell’ex opulento ex Occidente muoiono di anoressia.

Ricapitolando: pare che in quei tempi remoti bastasse avere il poco cibo necessario per la sopravvivenza e una modestissima dimora. Anche Epicuro ritiene che “l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca”. Ma molti preferivano un Simposio di ricche vivande, fra amici desiderosi di discutere di temi filosofici come “che cos’è l’amore?”, e qualcuno sceglieva un giardino per riunire adepti al proprio pensiero. Tutto ciò riguarda un’infima minoranza di fortunati. Gli altri sappiamo che vita tormentata conducessero, fra schiavitù, fame e guerre. E quegli altri esistono ancora.

L’essenziale soggettivo

Se immaginiamo di tornare indietro non duemilacinquecento, ma solo cento anni (parlo dell’Europa senza avventurarmi nel grande mondo), che cos’è essenziale? Senza televisore, frigorifero, telefono, computer, lavatrice, lavastoviglie, automobile, in un paesaggio urbano e anche campestre profondamente diverso da quello a cui siamo abituati, che cos’è essenziale? Una casa riscaldata, cibo sufficiente per tutta la famiglia a pranzo e a cena, abiti che passano dal primogenito all’ultimo nato, e poco più. Acqua calda, luce, gas, mah!

Ecco allora che si impone una riflessione ancor più radicale. Essenziale è condizione necessaria e sufficiente per vivere e voler vivere. Non è un concetto astorico, perenne, ma muta a seconda delle epoche e dei luoghi. Ed è ovvio, dal momento che noi indaghiamo intorno all’essere umano, ente storico e non naturale, come già aveva intuito Platone con il mito di Epimeteo e Prometeo in Protagora e dopo di lui Pico della Mirandola, che adattò il mito pagano al cristianesimo nella sua Oratio de hominis dignitate. E poi altri autori come Marx, e tutti coloro che scoprono che la natura dell’uomo è quella di non avere natura. Ciò significa che l’uomo è un essere soggetto ad un cambiamento continuo, soggetto e oggetto, protagonista di trasformazioni ambientali e innovazioni scientifico-tecnologiche dalle quali viene egli stesso intimamente modificato, e questa è l’evoluzione dell’animale uomo. Di conseguenza ciò che è essenziale per noi non era essenziale per gli uomini che ignoravano l’esistenza di ritrovati capaci di migliorare la qualità della vita.

Il cangiante concetto di “essenziale” passa anche attraverso il tentativo di definizione dell’essenziale soggettivo, sorta di ossimoro logico.

Protagora con il suo “uomo misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto (ci) sono, e di quelle che non sono in quanto non (ci) sono” intende dire che è l’individuo che valuta, sceglie, giudica, a seconda della propria condizione, determinata da fattori educativi e ambientali oltre che personali e fisiologici come salute o malattia: se sono malato, perfino il miele potrebbe non essere dolce per me. Ma oggi potremmo chiosare: se una cosa non c’è non posso sceglierla, valutarla, giudicarla, posso però sentirne la mancanza, che è angosciante.

In questo periodo noi di giorno in giorno, di settimana in settimana, quando andiamo a fare la spesa, stiamo vivendo un salto evolutivo, un adattamento silenzioso a una selezione più grossolana, che ci induce a soprassedere sulle innumerevoli differenze fra marche e tipologie delle merci . Non c’è il solito latte? Va bene anche un altro, purché sia latte. Non c’è il solito pane? Va bene anche un tipo diverso. Non c’è il solito dentifricio, spazzolino, detersivo? Vanno bene anche altri purché non restiamo senza. Non c’è la nostra marca prediletta di filo interdentale? Non c’è proprio nessun filo interdentale? Pazienza! il cotone recuperato dal cestino da lavoro della nonna andrà benissimo. Che sapone usi per lavare ripetutamente le mani, cantando “tanti auguri a te…” per due volte come nel film di Woody Allen? Marsiglia? naturale o profumato? mandorla, olio d’oliva? confezione singola o tripla? in plastica o in carta? se tripla, aumenta lo scarto dell’incarto. E va bene: ma se non c’è scelta, mi va bene un sapone qualsiasi. Oltretutto l’altoparlante del supermercato invita di continuo ad affrettarsi per non prolungare troppo l’attesa di chi sta facendo la coda fuori al freddo.

Langue et parole

Questa trasformazione potrebbe richiamare per certi aspetti la distinzione di Saussure fra langue e parole. La prima è il linguaggio comune parlato da una collettività in un certo momento storico e in un certo luogo; la seconda è il modo personalissimo in cui ciascuno di noi, non soltanto poeti e prosatori, utilizza quella lingua comune nell’esprimersi. Questo paragone potrebbe aiutarci nella narrazione del momento attuale? C’era una volta la langue dei bisogni essenziali. Poi è arrivata la parole dei bisogni individuali, sofisticati al punto da non poter essere classificati come essenziali. E qualche intellettuale viziato arriva a lanciare il paradosso: “toglietemi tutto, tranne il superfluo”. Bell’aforisma, buono per tempi di vacche grasse. Avete notato come la pubblicità, attentissima ai dettagli nel sondare l’umore dei potenziali consumatori, ha messo da parte spot in cui una ragazza meravigliosa e seducente invoca “toglietemi tutto, tranne il mio orologio di marca”? Al posto di quel genere di messaggi, altri ne compaiono, rassicuranti al limite del melenso, dove famigliole felici sognano di correre lungo spiagge deserte, in compagnia del Fido di turno. È forse giunto il momento di riscoprire la langue?

L’aria in tempi di rareté

Non dobbiamo lasciarci abbindolare da simili immagini. Certo, se proviamo a interrogare chi ha vissuto la tragedia di una catastrofe naturale, come un terremoto, a botta calda ci dirà che l’essenziale è aver salvato la vita: esserci ancora, con i propri familiari ed amici, pur avendo perduto alcune persone care e tutto ciò che possedeva, dalla casa al lavoro. Nella nostra attuale condizione potremmo affermare che essenziale è respirare, l’aria è fonte di vita. Nelle lezioni liceali il professor Fergnani, spiegando che l’uomo non è né buono né cattivo, né egoista né altruista, poiché non ha una natura fissa, ma è un ente storico che diviene a seconda delle condizioni oggettive, illustrava il concetto con un esempio: quando Hobbes dipinge gli uomini come lupi l’uno per l’altro, agitati da cupiditas, passione che li induce ad appropriarsi con la forza di ciò che è in mano al più debole, sta descrivendo una situazione di rareté. Non essendovi abbondanza di beni, soprattutto cibo, ciascuno pensa di accaparrare ciò che può, sottraendo ad altri ciò che scarseggia. Ma se di ogni bene vi fosse abbondanza, nessuno ruberebbe, così come nessuno sottrae all’altro l’aria per respirare. Non avrei immaginato che nella vita avrei vissuto un momento doloroso in cui l’aria non è per tutti. E pochi sono coloro che, come quel prete (santo subito!) che rinuncia al respiratore per consentire a un ragazzo più giovane d’essere salvato.

Allora questi sono i giorni non di Talete, con la sua acqua, ma di Anassimene: lo pneuma, il soffio vitale all’origine della vita. Chi respira vive. Chi si ammala ed è fortunato trova un respiratore. Chi non lo trova muore solo e senza la consolazione di rivedere i propri cari. Consolazione anch’essa essenziale per l’essere umano. “Io non so come morirò, ho però un desiderio, che è quello di vivere bene la mia morte, e chiarisco che cosa intendo per vivere bene la morte: io desidero che nel giorno della mia morte non sia solo, ci sia qualcuno vicino a me”, ha scritto un caro amico. Qualcuno può sostenere sinceramente di preferire una morte in solitudine?

E domani avere o essere?

Nei momenti successivi alla catastrofe, però, anche i terremotati desiderano una casa e un lavoro, e il ritorno alla vita di sempre. È presumibile che lo stesso accadrà a noi. Dopo una scarnificazione dei bisogni all’essenziale, chi sarà sopravvissuto ricomincerà a riprodurre per quanto possibile l’esistenza di prima. E si riaccenderà il dibattito antico come la filosofia. Avere o essere? Rincorrere cose, o dedicarsi a conoscere se stesso? Dice Socrate. Avere o essere? Vivere lasciandosi manipolare dal sistema produttivo che crea bisogni artificiali – quelli che già Rousseau denunciava come conseguenza della civiltà corrotta – o ricercare una sicurezza interiore ed un’autentica identità fondata sulla modalità dell’essere? Dice Fromm. Avere o essere? Rassegnarsi ad essere integrati nella società dei consumi, o sviluppare nuovi bisogni umani, come il bisogno di abolire la povertà e la fatica, il bisogno di libertà, il bisogno di sviluppare una nuova sensibilità e soddisfare desideri di valenza estetica? Dice Marcuse.

I sopravvissuti ai lager possono testimoniare un’esperienza drammaticamente educativa: ancor più della fame è la perdita della dignità umana ad uccidere. “O ci uccidono il corpo o ci annientano lo spirito. Contro il primo mezzo non c’è rimedio; contro il secondo il rimedio c’è: la volontà. Fortunatamente il rimedio esiste contro il pericolo più grave. Se ti uccidono il corpo, la loro non è una vittoria, ma se ti uccidono la volontà di resistere, di rinsaldare in te la tua fede, di diffonderla, di difenderla, in tal caso, ricorda bene, la loro vittoria sarà piena, assoluta, definitiva”. È un internato a Mauthausen, prigioniero politico, a scrivere. Lui si salverà.

Non siamo in una situazione limite paragonabile a quella. Non abbiamo perduto i diritti fondamentali. Sono soltanto momentaneamente sospesi, in funzione del primario diritto alla salute. Non si giustificano eccessive lamentazioni. L’essenziale attuale ci è garantito. Nei primi giorni della quarantena forzosa esplose una serie di flash mob: si vedevano persone alle finestre cantare insieme o da sole, dando spettacolo. Sui social circolavano riti scaramantici improvvisati da persone che uscivano in giardino a far chiasso con coperchi e pentole, minacciando il virus perché si allontanasse. “Sciò sciò ciucciué”, canta una vecchia filastrocca napoletana, ma non sono cose da prendersi sul serio, poiché ben sappiamo che la ciucciué (koukouvaia, in greco, vocabolo onomatopeico che indica la civetta) non porta sfortuna, e non ha portato il virus. Non dobbiamo cedere a superstizione e magia, fake news e profezie. Non cediamo al sonno della ragione.

Un simpatico complotto

Fra i complotti che circolano nel web uno mi è parso degno d’attenzione, non perché sia fondato ed attendibile, ma al contrario per il suo ironizzare su quanto possa diventare fantasiosa l’umanità in tempi di crisi. Possibilmente suscitando quel sorriso di cui parla Gabriele nella seconda comunicazione dedicata a “Quando la filosofia ride” (ma la preferisco se sorride). Ebbene: si sospetta che l’epidemia sia stata scatenata da Greta Thunberg per salvare il pianeta. E infatti i divieti della quarantena hanno reso l’aria molto più respirabile, facendo abbassare i livelli dello smog e dell’inquinamento. Gli uomini, certo, si estingueranno. Però la Terra sarà salva. Quella stessa natura che agli albori della civiltà era apparsa animata, abitata da divinità e da una folla di esserini sovrannaturali, era divenuta terreno di conquista, schiava da soggiogare, natura vexata per essere costretta a manifestarsi negli esperimenti scientifici. Il cosiddetto progresso aveva allora evocato un volto vendicativo della natura, non più madre ma matrigna o peggio ancora indifferente. “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? – dice la Natura all’Islandese – quando io vi offendo io non me n’avveggo; se io vi diletto o vi benefico, io non lo so. E se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”. Proprio così: la natura prosegue il suo corso, indifferente alle sorti di quell’ente che ha provato con scarso successo a farsene maître et possesseur. Gli uccelli cantano, i fiori rinascono, l’aria è tersa. Gli uomini muoiono.

WhatsAp(ocalypse)?

Roma. Piazza S. Pietro. Va in scena l’Apocalisse. Niente schiere di angeli, trombe, vegliardi canuti, agnello, niente. Solo un crocefisso e un vecchio zoppo e affranto. Il crocefisso perde sangue dalla ferita nella parte destra del costato. A sinistra rivoli di sudore lo attraversano. Il sangue è immobile, ma il sudore fa colare per tutto il corpo la sofferenza dell’agonia. Non è sudore, è acqua. Nella luce incerta del crepuscolo l’uomo parla di tempesta, e ripete la domanda “non t’importa?...”. Poi procede verso la piazza deserta con il Santissimo in mano, lo alza volgendolo in ogni direzione, silenzioso. Eros e Thanatos in lotta, come sempre. S’è fatta sera.

“Tempo verrà. Che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna…”

Le colonne in travertino, altissime, alludono a un’antica grandezza ormai decadente. La piazza è deserta. Un semicerchio di auto della polizia si intravede a sigillo, sullo sfondo. Nel buio il vecchio avanza a fatica ma deciso. Avrebbe desiderato presentarsi nudo, essenziale, ma gli hanno imposto l’abito bianco pesante e lo zucchetto. Si dice sia inviato dallo Spirito, ma in realtà è Giobbe, che tenace interroga Dio: perché? E Davide: fino a quando? È tutti gli uomini. Ma chi è Eros? E chi Thanatos? Insieme, come sempre.

“…parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà neppure un vestigio…”

Però la sua preghiera è ammutolita, la sua benedizione è muta. Dio non risponde. Anch’egli muto. Il male non è colpa sua. Infine risponde. Il silenzio è attraversato da un suono non trionfante, non minaccioso, contenuto, quasi pacificante: è la sirena di ambulanze che trasportano corpi febbricitanti, feriti, destinati alla morte o a una vita grama. Sono numeri per statistiche. È colpa degli uomini. Ma come, Dio, non sei infinitamente buono e onnipotente?

“…ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso…”

L’uomo grondante di pioggia ritorna sotto al colonnato con il suo Santissimo in mano: dorato, con bagliori rossi e blu.

“…Così, questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi”.

Ma noi non ci saremo

La crisi di cui parla Gabriele non è solo “vortice che continua a sconvolgerci, tempesta”, e momento che passerà poiché tutto scorre. Crisi è il sostantivo d’azione di criticare, e criticare, come sappiamo da Kant, significa giudicare, distinguere, valutare. Da questa crisi usciremo – coloro che ne usciranno – con una nuova considerazione di ciò che è essenziale. Essenziale è la relazione con le persone: amici, parenti, amanti, anche solo conoscenti. L’uomo animale socievole riscopre la gioia dello stare assieme, come nel dopoguerra, ci dicono. Esplosione di gioia che non durerà a lungo. Ben presto ciascuno riprenderà le proprie abitudini, cercando di dimenticare il terribile passato. Se prestiamo ascolto agli esistenzialisti, l’esistenza precede l’essenza. Per l’individuo ciò significa che solo dopo la morte si saprà quale sia stata l’essenza di quella persona: essenziale sarà come ha vissuto. Ma lui, lei, non potrà mai saperlo, perché non ci sarà più. Quanto al genere umano, i credenti verranno tutti perdonati dall’infinita misericordia divina. I non credenti, ridiventati polvere di stelle, vagheranno fra le galassie. Poi, quando “l’arcano mirabile e spaventoso” sarà dileguato, dilegueranno anch’essi. E nessuno saprà mai che sia stata la loro essenza. Nessuno ci sarà più a testimoniarla.

Forse.

Patrizia de Capua, marzo 2020