VIVA LA LIBERTÀ, di Patrizia De Capua

02.06.2020 20:00

Il saggio di Franco Gallo “Da Rachels al Covid-19: scenari politici e limiti della morale” , ricco di spunti di riflessione e approfondimenti su temi attualissimi come catastrofe sanitaria ed economica,  dilemmi etici e morali, compiti della politica e comportamenti selezionabili per il futuro, impone un’accelerazione della ricerca in vista di una cosmica revisione di abitudini di vita e valori consolidati.

Mi ritaglio uno scampolo di quella stoffa pregiata per chiarire a me stessa il senso che ancora può avere una filosofia morale nel mondo del XXI secolo sconquassato da un totale rivolgimento, e lo faccio accogliendo uno dei numerosi suggerimenti di Gallo: l’imperativo ipotetico, che ci guida verso quella filosofia morale che Kant preferisce chiamare Ragion pratica.

 

È possibile un’azione morale?   

 

Libertà, obbligatorietà, autonomia sono, come è noto, i requisiti formali dell’azione morale secondo Kant.

 

La mai dimostrata né dimostrabile libertà – postulato della Ragion pratica, insieme a Dio e all’immortalità dell’anima – fa da sfondo e fondamento per quei comportamenti che decidiamo di qualificare come morali. È sicuramente requisito imprescindibile, dal momento che se non fossimo liberi non potremmo neppure dar inizio a un discorso attorno al tema morale. Se le azioni dell’uomo dovessero considerarsi come effetti necessari di cause fisio-psichiche e genetiche, se l’uomo fosse esclusivamente sottostante al determinismo naturale, come sostengono alcuni positivisti a partire dal biodeterminismo materialista dell’antropologia criminale lombrosiana; oppure se dovessero scaturire da insopprimibili cause ambientali, educative e familiari, con l’immancabile corredo di teorie razziste, neocolonialiste ed eurocentriche; ebbene, stando così le cose, il valore morale non sussisterebbe. Peggio ancora: senza libertà l’agire degli uomini si ridurrebbe a “gioco di marionette”.  L’uomo è ridotto a marionetta quando è semplice meccanismo. L’insieme delle interrelazioni potrebbe dare l’idea di un tutto che gesticola bene, ma “nelle figure non si troverebbe vita alcuna [1]. Dunque, senza libertà saremmo Pinocchio prima della metamorfosi, pezzi di legno, fantocci senza spirito. Tutto ciò a livello morale. Sul piano della filosofia della storia, a questa ipotesi corrisponde ciò che Kant definisce “abderitismo”: gli scambi reciproci della nostra specie degradati a vacuo passatempo. L’abderitismo  concepisce l’umanità in perenne “sforzo disperato di spingere, rotolandola all’in su, la pietra di Sisifo per poi lasciarla di nuovo rotolare verso il basso” [2]. E questo perché il principio del bene e quello del male si associano tanto intrinsecamente da neutralizzarsi a vicenda. All’abderitismo viene assegnata una posizione intermedia fra due opposti estremi, l’uno pessimistico e l’altro ottimistico. Il primo, definito “concezione terroristica nel modo di considerare la storia dell’umanità”, profetizza un durevole ricadere nel peggio fino all’autodistruzione. Il secondo, “concezione eudemonistica”, illude con vane speranze di un costante progresso nella via del bene. Per entrambi disponiamo di autorevoli esempi: Schopenhauer e Leibniz, tanto per citare i più noti.

Dunque, che fare per salvaguardare il valore morale delle nostre azioni? Non ci resta che agire come se fossimo dotati di libertà, pur senza poter dimostrare di essere liberi. E ciò vale sia a livello individuale che a livello di significato, direzione, senso presunto della storia. In altri termini, decidiamo che siamo liberi di scegliere fra il bene e il male, il progresso o il regresso, la civiltà o la barbarie. Ma nulla ci garantisce di poter perseguire lo scopo che ci prefiggiamo, a causa di innumerevoli complicazioni derivanti dall’intreccio combinato dei progetti di tutti gli altri agenti, ciascuno dei quali persegue un fine proprio. È ciò che nella filosofia della storia di Hegel , in controtendenza con il generale ottimismo metafisico, dà luogo a una malinconica trattazione della sorte riservata all’individuo, “marionetta” dello Spirito, che ne sfrutta a proprio favore passioni e moventi, abbandonandoli poi al loro destino, per realizzare un piano che li trascende: è il cosiddetto “furto del progetto” o “furto dello scopo”, frutto dell’Astuzia della Ragione.  

Obbligatorietà. Accanto a “libertà”, sembrerebbe un ossimoro. Se osserviamo con più attenzione, però, ci rendiamo conto che, una volta appurato che pur non sapendo se siamo liberi ci comportiamo come se lo fossimo, ogni decisione che prendiamo, se vuole avere dignità morale, viene dettata da un “tu devi” che ha la forza di un’obbligazione senza riserve: un imperativo categorico. Altrimenti siamo nell’ambito dell’imperativo ipotetico, ossia di una direttiva assunta in vista di un risultato o di un vantaggio che si voglia ricavarne. Di quest’ultimo tipo sono sia le regole dell’abilità (“se vuoi saltare meglio, prendi la rincorsa”), i cui scopi sono particolari e contingenti,  che i consigli della prudenza (“se vuoi godere della fiducia altrui, non mentire”), i cui fini hanno un carattere generale e permanente.  Stiamo comunque discutendo di quella “prudenza” definita da Gallo come “comportamento assennato che si preoccupa del possibile esito infausto di proprie azioni, in sé non intrinsecamente lesive del prossimo e/o di se stessi, ma che in un quadro concreto hanno considerevoli probabilità di risultare tali”: ad esempio “se non vuoi contagiare gli altri, non violare la quarantena”. Questo comportamento non rientra nell’ambito della morale, così come, in ambito giuridico, non ha rilevanza di “fattispecie commissiva”, spiega ancora Gallo.

Torniamo allora alla morale e a quell’imperativo categorico che non pone condizioni, non si ripromette di ottenere alcun vantaggio, non cerca di soddisfare qualche nostro desiderio di felicità o di utilità, né di gratificazione sociale. È un comportamento che scaturisce da una voce interiore, che siamo soliti chiamare coscienza, ben più esigente di qualunque padrone, per nulla accomodante, e ostinata nel rappresentarci la colpa in cui incorreremmo ignorandola: “tu devi agire così, perché questo è il tuo dovere”. Il problema per noi, però, non consiste nel definire formule generali (le tre formule dell’imperativo categorico), quanto di volta in volta nell’individuare il contenuto dell’azione. Ho intenzione di comportarmi moralmente, ma qual è il mio dovere? Nella complessa interazione fra agenti, contestualizzati qui ed ora, nelle specifiche circostanze in cui mi ritrovo a scegliere l’opzione A in luogo della B, o peggio ancora della non-A, come si sostanzia il “tu devi”? Come riconoscere il dovere distinguendolo dall’impulso verso la felicità, dall’inclinazione sensibile, dalla scelta di comodo?  

Agli occhi di Kant il problema non sussiste. Il dovere è lì, a portata di mano, tanto che in una situazione specifica, quella del depositum, perfino “un fanciullo di otto o nove anni” non esiterebbe a indicare in quale azione si concreta. In breve, se qualcuno si trovasse nella condizione di aver ricevuto in affidamento un bene da un uomo, poi defunto, senza che gli eredi ne sappiano nulla, un bambino saprebbe dire che il dovere è restituirlo. E non importa se l’affidatario è povero e certo dell’impunità, mentre gli eredi sono straricchi, e vivono in un lusso tale che “aggiungere questo supplemento alla loro fortuna sarebbe come gettarlo in mare” [3]. Non restituire il deposito è ingiusto, è contro il dovere. Ma perché? Perché  la massima, il principio ispiratore di un’azione in nome del dovere è chiarissima, mentre non lo è quella dettata dalla felicità. Nell’esempio, se l’affidatario decidesse di seguire l’inclinazione naturale verso la felicità tenendo per sé il deposito, l’esito dell’azione non sarebbe affatto sicuro, poiché se utilizzasse il deposito per trarsi dalle sue critiche condizioni, potrebbe attirare su di sé il sospetto riguardo ai mezzi e alle risorse che si è procurato. Diversamente, restituendo il deposito otterrebbe “una buona fama”, che “può riuscire molto vantaggiosa” [4]. Ancor più calzante è l’esempio del “non mentire” mai e in nessun caso, in nessuna circostanza, neppure all’assassino che mi domanda se la persona che egli cerca si è rifugiata in casa mia. La menzogna “a fin di bene” non è comunque morale, e per di più va a colpire “non un uomo determinato, bensì l’umanità in generale”. Perché? Perché “avvelena la fonte stessa del diritto” [5].

Il diritto? non si stava discorrendo di etica? E l’etica utilitaristica e quella eudaimonistica, cacciate dalla porta, sono pronte a rientrare dalla finestra? Felicità, vantaggio, premio, gratificazione, non dovevano restarne fuori?

No, dice Kant, perché l’uomo è un ente razionale finito. Cittadino di due mondi, sempre alberga in sé le contrastanti voci del noumenico e del fenomenico, moralità e natura, e quando prevale la prima egli decide liberamente di sottostare alla legge del dovere. Una legge che egli stesso si è dato.

Autonomia. Requisito cruciale, che fa dell’etica kantiana un manifesto di illuminismo, con il suo sapĕre aude , invito ad emanciparsi da autorità esterne e superiori, da padri padroni, sovrani dispotici, leggi calate dall’alto (benché il dispotismo illuminato, con il suo corteo di paternalismo, abbia trovato udienza proprio in quella meravigliosa scuola di indipendenza di giudizio: ma questa è un’altra storia). L’autonomia è la non dipendenza della volontà da un comando esterno o da un esteriore oggetto di desiderio. Riguardo al primo carattere, eteronoma viene qualificata la morale religiosa tradizionale, in cui la volontà si uniforma ad un ordine divino trascendente. Riguardo al secondo, eteronome sono le etiche nelle differenti versioni, da Hume a Shaftesbury, che ricercano “la maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di persone” (Beccaria, Bentham), e che si fondano su concetti come utilità, vantaggio reciproco, partecipazione sentimentale, convergenza armonica fra le azioni degli uomini. È qui che Kant manifesta il più agguerrito rigorismo, giungendo a identificare l’essenza della moralità nella coercizione che la coscienza del dovere esercita sulle inclinazioni sensibili, le quali tenderebbero al benessere dell’individuo (e della società). Che avesse ragione Schiller quando non troppo scherzosamente sferzava Kant in un epigramma, liquidando il significato della Ragion pratica nella sintesi “fare con ripugnanza/ ciò che il dovere impone”? sì, perché in fin dei conti il modo per riconoscere il dovere additato dalla coscienza, qualora la volontà oscilli fra azioni contrarie – ed ecco riemergere il contenuto da ciò che si voleva solo forma – è quello di far cadere la scelta sul comportamento che più ci costa, quasi quasi ci ripugna. La sintesi per lo stesso Kant potrebbe essere, al contrario, che si ha valore morale quando la volontà libera (libertà) si autodetermina (autonomia) in ossequio al dovere (obbligatorietà). Schiller con la sua intuizione, più di Kant con la sua attitudine – diciamolo – molto  intellettualistica, ci illumina nel momento presente con i suoi drammatici dilemmi.

Dilemmi e istruzioni per l’uso

Il dramma è quello non ipotetico ma realissimo di un medico che, di fronte alla carenza dei respiratori, si trovi a prendere una decisione. E che cosa suggeriscono le “raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”? “Dovendo mettere in terapia intensiva il quarantenne con famiglia o l’ultrasettantenne vedovo, in determinate e specifiche condizioni , scelgo il primo”, illustra Franco Gallo, rinviando a documenti il cui succo è presto detto:  nel caso di shortage delle risorse sanitarie, privilegiare “la maggior speranza di vita”. Ovvio che il giuramento di Ippocrate va in frantumi, insieme con le granitiche certezze kantiane. Che cosa avrebbe infatti da dire la volontà libera che si autodetermina in ossequio al dovere, messa davanti all’urgenza di una simile scelta? Argomenterebbe sulla proporzionalità costi/benefici? O sull’imperativo categorico con le sue tre formule, indagando sull’universalizzabilità della massima della propria azione: se scelgo di sacrificare l’ultrasettantenne vedovo, sarebbe giusto che, messi nelle stesse condizioni, tutti si comportassero come me? E poi sul modo di trattare l’uomo come fine e non come mezzo? E sulla possibilità di costruire un utopico regno dei fini, dove ciascuno è al tempo stesso legislatore e suddito? O ancora si domanderebbe se è quella la scelta più ripugnante, dunque è il dovere? Tutti processi nei quali giudice e imputato coincidono: la mia coscienza. E soprattutto processi che si devono svolgere e risolvere nel giro di pochi minuti, pena la perdita di entrambi i concorrenti alla cura. Non è facile, in un batter d’occhio, passare in rassegna tutte le variabili, sottoporle a verifica, e infine inquadrarle in un insieme armonioso, da cui scaturisca una soluzione bella e confezionata del problema. Non funziona così. In altri termini: spiacenti, non abbiamo nessuna garanzia. Né fuori di noi, né dentro di noi. Nessuna certificazione né eteronoma né autonoma di qualità che dica: ecco, questo è il comportamento morale, l’opzione contrassegnata “dovere”. Bollino blu.

Ci siamo sforzati per decenni di incanalare comportamenti, prevedendo stimoli e condizionando risposte. L’utopia di un mondo di automi programmati per essere felici sembrava a portata di mano. Eccola lì: Walden two (Skinner, 1948). Bastava che l’educazione iniziasse presto, anzi prestissimo. Possibilmente entro i primi sei anni di vita. Poi sarebbe stato semplice. Ragazzini impegnati nell’eseguire compiti secondo schemi, tracce, questionari, test senza uscita laterale: risposte chiuse, unidirezionali, senza commenti. I tradizionali temi banditi come vuota retorica. Vietato pronunciarne perfino il nome. E sui social ecco la conferma che quella imboccata fosse la giusta direzione: omologarsi all’influencer di turno. Dopo qualche anno, ecco adulti preconfezionati, cittadini pronti ad interpretare il proprio ruolo secondo regole chiare, ben definite, e rinforzi per chi le rispetta. Chi non si uniforma è “generazione perduta”, emarginato o condannato all’esilio. Poi il lavoro, con carte dei servizi munite di certificazione qualità, e protocolli, quanti bei protocolli!

Tutto sacrosanto: i prodotti devono rispettare regole precise, e la prestazione di un professionista deve rispondere all’utente dell’applicazione di precisi standard, garanzia di… ecco la garanzia! Ma di che cosa? Di un lavoro ben fatto? Forse, ma soprattutto di un preventivo cautelarsi contro eventuali recriminazioni e  rimostranze degli insoddisfatti, e magari ricorsi e cause legali.

So che per molti il sistema qualità ha rappresentato un momento forte di democrazia e trasparenza. Ma mi domando: nell’ambito scolastico, ha elevato la cultura, l’educazione, la capacità di gestirsi in modo autonomo che i bambini degli asili montessoriani acquisivano fra i tre e i cinque anni? O  piuttosto la qualità si è prestata a divulgare teorie psico-pedagogiche fondate sull’istruzione programmata che riduce i compiti di apprendimento ad unità semplici, procedendo step by step? E va bene. Ma poi è stata ugualmente curata la ricomposizione in sintesi delle unità analitiche, ossia la costruzione di un insieme di conoscenze, di un quadro culturale che non sia semplicemente giustapposizione di discipline? Non abbastanza. Così quel clima, quello stile, quelle ossessive richieste di rendicontazione (spesso illogicamente preventivo) dell’operato, di monitoraggio del funzionamento della macchina, anziché promuovere la democrazia, hanno contribuito a cronicizzare la burocrazia, morbo tipicamente italiano che non si lascia scalfire neppure nei periodi più difficili della vita nazionale, anzi: ne esce rinvigorito. Ma l’educazione ha i suoi tempi, e le istantanee rubate sono schegge di pietra schizzate via dalla statua figlia di Medusa.

Protocolli: ben vengano, in tempi di routine. Nell’ambito medico suppongo siano essenziali per fare in modo che l’esperienza consolidata acquisita da chi ci ha preceduto venga messa a disposizione di chi opera adesso in casi analoghi. Un utilissimo memorandum affinché nulla venga trascurato e la cura delle differenti patologie possa essere attivata tempestivamente e produrre risultati confortanti ed efficaci. Tralascio lo sconforto di chi potrebbe sentirsi trattato più come caso clinico che come persona, perché sono certa che la sensibilità di medici ed infermieri possa intervenire a supportare i protocolli, cancellandone sgradevoli effetti collaterali.

Ma nell’emergenza che succede? Che è successo? Chi si è trovato suo malgrado a dover fronteggiare dilemmi etici come quelli di cui si diceva, a che cosa ha potuto aggrapparsi? Nessun protocollo, nessuna alternativa per evitare una scelta, solo la coscienza e la decisione immediata, quasi convulsa. Nessuna teoria rassicurante, nessun lume, nessun maestro. Solo la coscienza, la coscienza da sola.

Zero garanzie

Caro orologio di Königsberg, è l’ora della verità. Nessuna garanzia da parte di regole universali. La scelta obbligata è personale, individuale, ma impegna chi la fa ad esserne responsabile di fronte all’intero genere umano. È ciò che, in circostanze altrettanto drammatiche di quelle della pandemia, Sartre ha saputo dispiegare davanti a noi con l’esempio del giovane francese posto, durante l’occupazione tedesca della sua patria, di fronte alla scelta fra partire per combattere a favore della libertà o rimanere a consolare la madre vedova, rimasta sola dopo la morte dell’altro figlio. Questo esempio, nel testo L’esistenzialismo è un umanismo, vale come ennesimo chiarimento di ciò che l’autore intende nel titolo. Nell’esistenzialismo viene condotto ad estreme conseguenze  un tema che Kant, orologio di Königsberg, ha in qualche modo tratto da Hume, sveglia che l’ha destato dal sonno in cui si cullava: l’esistenza non è un predicato, non è uno degli attributi dell’essenza, non ne può essere dedotto. L’esistenza non si può dimostrare, ma solo mostrare: questo c’è, è qui. Nel linguaggio di Hume, solo le relazioni fra idee possono essere oggetto di dimostrazione. Non le cose di fatto. Nel linguaggio di Kant, l’espressione “esistenza necessaria”, che da Anselmo d’Aosta in poi è stata la chiave di volta per dimostrare l’esistenza di Dio, non ha alcun senso. Nel linguaggio di Sartre, l’esistenza precede l’essenza: quando si nasce non si dispone di un ben articolato sistema di qualità e virtù che costituiscano l’essenza, l’idea, il senso, il valore di ciò che si è come esseri umani esistenti, un sistema al quale progressivamente uniformarsi per crescere e diventare un uomo, l’uomo. No, prima si deve affrontare la vita con tutte le scelte che essa impone, si deve esistere, scartando alcune opzioni ed assumendone altre. Da queste scelte, di cui ciascuno di noi diviene testimone davanti agli altri uomini, dipendono i valori che vanno a costituire il modello di uomo, l’essenza umana che proponiamo. La scelta è individuale, la testimonianza pubblica e assai impegnativa. Non ci sono scuse per chi non sceglie. Non si può invocare la possibilità di ciò che si sarebbe potuto diventare. Alla fine si è diventati quello che le nostre scelte di vita hanno deciso che noi fossimo.

Solo di fronte a tutti, con la mia coscienza libera di scegliere. Libera, s’intende, in circostanze storiche ed ambientali vincolanti, che hanno prima di me deciso che io nascessi in quel giorno, in quel luogo, in quella famiglia, con quel corpo di carne e sangue… e che mi trovassi in quel giorno, in quel luogo, in quella circostanza, con i maestri che mi hanno aiutato a crescere, con le persone che mi amano, con gli amici che mi consigliano, con i colleghi che mi incoraggiano o mi ostacolano…, dunque la mia coscienza sceglie in solitudine ed abbandono, liberamente. Al di là di tutto sta la scelta obbligata, in cui è implicito il fallimento: quella che comporta il sacrificio di una vita. Rispetto a questa, l’abbandono è desolazione e senso di colpa.

Abbandono e angoscia

E poi? Con l’abbandono va di pari passo l’angoscia dell’essere responsabile coram populo della scelta fatta. Se la scelta fallisce, sarò additato all’esecrazione collettiva per non aver rispettato il protocollo. Se mi fa avere successo, eccomi diventato eroe. Ma non avevo nessun appiglio, nessuna assicurazione, nessuna garanzia metafisica. Stavo inventando la mia esistenza. È questa, per l’appunto, la risposta che il professor Jean Paul Sartre dà al giovane studente imbarazzato dalla scelta, venuto a chiedergli consiglio: “tu sei libero, scegli, cioè inventa” [6]. È ciò che avranno fatto in tanti, nel periodo nerissimo del contagio al picco, abbandonati alla libertà, all’assenza di comportamenti consolidati, all’urgenza di non vedersi morire sotto gli occhi più persone di quante non se ne potessero salvare. È quello che ha fatto anche una tenace anestesista, non rassegnandosi all’autogiustificazione dell’ “aver tentato tutte le possibilità previste”: ha tentato qualcosa di nuovo, ha immaginato una possibilità non protocollata. Nel protocollo e nelle regole universali  non sono presenti, non possono essere contemplate tutte le circostanze della vita. C’è qualcosa che sfugge nella sfavillante varietà della casistica, ed è l’impossibilità di padroneggiare quell’insieme totale per noi inattingibile, come ben sa chi come Kant ha trattato dell’aspirazione a comprendere la totalità di per sé inconoscibile dei fenomeni. Ciò non significa che quell’aspirazione vada frettolosamente liquidata con uno “state contenti, umana gente, al quia”: anzi, essa va coltivata come tensione utopica verso la totalizzazione. Ma non dobbiamo illuderci di poter mai guardare le cose con lo sguardo di dio. Né di poter mai dimostrare che dio esiste, né che siamo dotati di un’anima immortale, né che possediamo la libertà. Ciononostante, siamo posti davanti a scelte che non ci danno scampo: ci impongono di comportarci come se fossimo liberi. La libertà non esiste, viva la libertà.

 

Patrizia de Capua

2 giugno 2020, festa della Repubblica



[1] Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Bari, Laterza, 1971, p. 178.

[2] Immanuel Kant, “Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio”, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, Utet, 1971, pp. 213-230, a p. 216.

[3] Kant, “Sopra il detto comune «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica»”, in Scritti politici…, cit., pp.237-281, a p. 250.

[4] Ib., p. 251.

[5] Kant, “Sopra un preteso diritto di mentire per amore dell’umanità”, in Scritti politici…, pp. 359-365, a p. 361.

[6] Jean Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, a cura di Franco Fergnani, Mursia, 1978, p. 71.