VOLUME PER IL 150º DELL'UNITÀ D'ITALIA: QUADERNO Nº 10 DEL CAFFÈ FILOSOFICO - AUTORI: PIERO CARELLI, VITTORIO DORNETTI. INTRODUCE FRANCO GALLO

09.01.2012 21:00

 

“Una bandiera che gronda sangue” di Piero Carelli e “Anche a Crema si è fatta l’Italia…” di Vittorio Dornetti, sono i due scritti che compongono il volumetto n. 10 della collana di pubblicazioni del Caffè Filosofico. Lo scritto di Carelli è una rivisitazione originale degli avvenimenti del Risorgimento attenta più ai “mezzi” (battaglie e violenze) che al fine (il raggiungimento dell’unità). La domanda – più filosofica che storica - sottesa è: “si sarebbe potuto raggiungere lo stesso scopo con altri mezzi?”

Più di natura storica lo scritto di Dornetti che illustra ed analizza personaggi e fatti locali in coerenza col “Risorgimento dei cento campanili”.

Dibattito

Data: 13.06.2013

Autore: Secondo Giacobbi

Oggetto: Commenti

Cari amici, dunque il nostro tricolore è una " bandiera che gronda sangue" come recita il crudo titolo dello scritto, bello e interessante, di Piero Carelli. Certo, come tutte le bandiere dei popoli della terra, poichè la storia della nostra specie è abitata da una violenza ineludibile, in modo conforme alla violenza che abita l'animo umano. Possiamo solo cercare di canalizzarla e un po' frenarla, senza però pretendere di estirparla. Sarebbe una pericolosa illusione. Non condivido l'opinione di quegli psicologi che ritengono che l'aggressività umana sia di ordine secondario e reattivo. Credo invece che, al di là di circostanze scatenanti, essa faccia comunque profondamente parte della nostra struttura. Perchè è così? Non è questo il problema qui. Qui il problema è rappresentato dalla violenza presente nel nostro Risorgimento, come nei Risorgimenti di tutte le nazioni d'Europa e d'America. La loro violenza non cancella il loro grande valore storico. Piero Carelli ha scritto pagine lucide e persino divertenti sui protagonisti del nostro Risorgimento, da Mazzini, cupo e funereo ( e assai antipatico) a Garibaldi, vitale e coraggioso, sino a Cavour, pragmatico sino al cinismo. Condivido il parere di Piero: un gigante e un grande liberale; un esempio ancora stimolante per noi Italiani, così refrattari ad un vero e profondo liberalesimo politico. Piero cita il suo " Libera Chiesa in libero Stato". Magari! In questa nostra Italia riclericalizzata è ancora un motto attuale.

Data: 13.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: La storia ha un senso?

La storia ha un senso?

No, ma possiamo dargliene uno.

Condensato in un aforisma, ecco una delle conclusioni tratte da un grande liberale – che presumo l’amico Piero Carelli apprezza, in linea generale – e cioè Karl Popper nel suo libro più controverso, La società aperta e i suoi nemici (1945). Scrivo “controverso” per ragioni che gli storici della filosofia di solito riducono a un aspetto tutto sommato secondario - quasi da opposte tifoserie e sentinelle della ipercorrettezza filologica (che è spesso di una noia mortale) - e cioè se l’attacco al divino Platone contenuto in quell’opera sia fondato o meno. Questo senza nemmeno entrare nel merito del vero obiettivo che l’autore si poneva, e cioè difendere le ragioni della libertà in un’epoca in cui era minacciata dalla peggiore barbarie mai vista, e degli innumerevoli altri contributi là contenuti in pagine densissime. Qualcuno potrà trovare eccessivo scomodare Popper per commentare un’invettiva morale contro certi aspetti del nostro Risorgimento. Tuttavia, nel leggere il libro di Piero, e il contributo chiarificatore inviato in seguito per il dibattito virtuale (dei quali condivido pressoché ogni riga), ritrovo molte delle idee espresse in quella sottovalutata opera da un pensatore che a mio parere è perfino più interessante come politologo che come epistemologo, tanto da farmi quasi sospettare un’ispirazione diretta, tanto forte è l’analogia di pensiero. Peraltro molti parlano di “società aperta” ma credo che relativamente pochi abbiano letto quel libro, e fra quelli che l’hanno letto c’è stato parecchio fraintendimento. Non penso che i rimandi siano intenzionali, ma per me resta comunque un grandissimo pregio, ritenendo l’austriaco il più grande filosofo vissuto dopo Kant, esempio assoluto di rigore argomentativo, chiarezza e forza morale nel difendere proprio quel liberalismo che Piero sostiene (come troppi altri filosofastri contemporanei molto più esaltati non hanno invece fatto, per loro eterno disonore). Quali sarebbero dunque questi paralleli ideali? E cosa vogliono ricordarci, tutte le volte che rivisitiamo stagioni storiche decisive od osserviamo realtà politiche che comprimono la vita e la libertà degli individui? Piero li ha di fatto già delineati, ma vorrei aggiungere qualche considerazione.

Un primo parallelo, ovvio e introduttivo, riguarda proprio l’esame dei cosiddetti “grandi uomini che fanno la storia” con le loro gesta, messi in primo piano da Piero nel suo libro. Mostri sacri, di cui abbondano agiografie e storie edulcorate anche nelle scuole, onnipresenti nelle vie e piazze d’Italia. A quelli si aggiunge, allargando la visuale, l’altra categoria dei “grandi uomini” che forgiano le idee del loro tempo, influenzando pesantemente anche quelle del tempo futuro e quindi la vita di quelli che vivono dopo, i quali pagano le conseguenze. Convinto anche io come Piero che i secondi in effetti siano perfino più importanti dei primi, ebbene, anche il filosofo di Vienna mio prediletto cerca di smorzare gli entusiasmi - per usare un eufemismo - pur riconoscendo tutte le contingenze storiche e sociali del caso:

Se vogliamo che la nostra civiltà sopravviva, dobbiamo smetterla con l’abitudine della deferenza verso i grandi uomini. I grandi uomini possono fare grandi errori.

Se l’immediato bersaglio polemico riguarda, come è noto, la triade dei “falsi profeti” Platone, Hegel e Marx, è chiaro che l’intento qui è analogo a quello di Piero: osserviamo oggi, con la nostra sensibilità, aspetti inaccettabili nel pensiero e nell’azione degli uomini di ieri. Peraltro due dei tre sopra citati sono esplicitamente messi in causa da Piero, e chiamati nello stesso modo per ragioni pressoché identiche a quelle che fanno dire a Popper che Hegel è un vero e proprio pervertitore del fondamento morale del proprio tempo, colui che in età contemporanea getta le basi per l’affossamento del valore dell’individuo e della sua intangibilità per Ragion di Stato, della sua sacrificabilità nelle maglie ineluttabili della Storia, schiacciato e annullato dalle Sue “astuzie” che guidano verso una meta inevitabile, come poi (pseudo)argomenterà Marx riprendendo la stessa matrice speculativa. Il tutto sciorinato in un gergo scandaloso che laddove è intelligibile è banale, e dove non lo è serve solo a mascherare il vuoto pneumatico di sostanza. Tutti noi, voglio sperare, non possiamo più credere minimamente a follie di questo genere, non tanto e non solo perché sono ormai falsificate dalla storia stessa, ma soprattutto perché sono semplicemente rivoltanti dal punto di vista etico. E qui non si sta forse parlando di un “grande uomo”, un “filosofo” potentissimo, che ha forgiato lo “spirito” del suo tempo proiettando nel futuro un’ombra che poi si è rivelata funesta, a sua volta adoratore di “grandi uomini” che in realtà erano grandi criminali? Vogliamo restare a tutti i costi in un atteggiamento intellettuale giustificazionista, ed evitare di trarre almeno la conclusione minimale che oggi, perlomeno, si dovrebbe studiare Hegel (e altri) soprattutto per capire macroscopici errori che dovremmo evitare? La stessa cosa, penso, propone di fare Piero, ed è lo stesso approccio che si dovrebbe seguire con qualunque figura storica o intellettuale, perché scoprire gli errori è molto più fecondo, spesso, che esaltare dubbi guadagni positivi (altro lascito di Popper). Non è nemmeno il caso di dilungarsi sulla sconfinata influenza marxista, con i suoi paradisi in terra che in realtà sono l’inferno, da raggiungere inevitabilmente al prezzo di milioni di vittime, individui che non contano nulla. E riguardo Platone, mi limito a fare una semplice considerazione, evitando di impelagarmi in polemiche ormai francamente stantie: alzi la mano chi sarebbe disposto a vivere in una realtà fondata sugli assunti politici e sociali delineati nella Repubblica e nelle Leggi. Domanda che non si può porre per manifesto anacronismo? Forse, ma quegli assunti sono derivati di peso da premesse filosofiche del tutto assimilabili a quelle che valgono per gli altri “profeti” già menzionati, per i quali le realtà collettive e organiche hanno infinita più consistenza degli individui: e questo ha implicazioni concrete, eccome. E non voglio nemmeno entrare nelle interminabili dispute su come si deve leggere Platone: per me Platone intendeva comunicare esattamente quello che ha scritto, che è sufficientemente chiaro. Superficiale? Semplicistico? Ermeneuticamente scorretto? Non credo. Sono in ottima anche se non abbondante compagnia.

Quanto sopra porta a un corollario immediato: Popper chiama “futurismo morale” quello che giustifica il massivo sacrificio umano di oggi per raggiungere una meta futura, supposta inevitabile e scientificamente fondata quando non è altro che utopia sanguinaria. L’Unità d’Italia non era forse per qualcuno una meta di questo genere, supportata in certi casi da un credo discutibile e fanatico? Poco importa che poi l’Unità d’Italia si sia raggiunta davvero, o che la possiamo considerare definitiva, o che l’inferno totalitario comunista sia ben altro – è l’impalcatura ideologica a essere qua e là molto simile, e questo basta. Anche l’idea di giudicare il “grande uomo” dai risultati della storia è una pessima idea secondo Popper: il “tribunale” della storia non ha nessuna legittimità di per sé, e i “risultati” non giustificano nulla, sia perché la storia non ha nessun corso preordinato (quello che Popper intende per storicismo), sia perché è l’uomo libero a farla, e niente altro (la Provvidenza divina, per chi ci crede, è tutt’altra cosa e corre su tutt’altro binario, quindi non c’entra niente con la presente dissertazione).

Nazionalismo: gran parte del secondo volume de La società aperta ha al centro questa nefanda malattia, vera e propria gabbia tribale che si nasconde perfino in miti ai quali tutti sembrano ancora credere senza riserve, come la cosiddetta “autodeterminazione dei popoli”. Se un “popolo” si “autodeterminasse” nell’eleggere un tiranno, parleremmo forse di democrazia? Non avremmo diritto morale all’ingerenza? Quale “autodeterminazione” sussiste nell’Unione Europea? E se esistesse in qualche forma, sarebbe quella a legittimarla? E poi, qualcuno mi spiega cosa è un “popolo”? Liberalismo: perfettamente convinto che sia, politicamente parlando, il male minore; e altrettanto convinto che una delle ragioni per cui è guardato con sospetto è richiamata da Piero e ampiamente spiegata da Popper: essendo fondato su una matrice individualistica, viene confuso soprattutto dai marxisti (e postmarxisti, che sono ancora marxisti) per egoismo. Popper traccia un evidente parallelo: i collettivisti sarebbero altruisti e solidali, mentre gli individualisti sarebbero dei gretti egoisti, ignorando che i primi sostengono (magari inconsapevolmente) la matrice di qualunque totalitarismo, mentre se vogliamo che la libertà abbia almeno una possibilità di esprimersi dobbiamo porre al centro l’individuo, senza pretendere di emendarne i vizi. Così, il singolo può anche permettersi di essere altruista e solidale, e lo sarà in modo autentico e libero; in tutti gli altri casi, qualche istituzione liberticida vorrà impormi le stesse virtù, per un malinteso senso di irraggiungibile perfezione. C’è qualcosa di più ridicolo, coercitivo, utopistico e fanatico? Quali le eccezioni alla intangibilità dell’individuo? Certamente la legittima difesa, e per estensione la legittima difesa che una società aperta pratica verso un agente totalitario (non necessariamente un’entità nazionale, direi io), come Popper (che è tutto meno che un pacifista “senza se e senza ma”) scrive a chiare lettere:

La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l'illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.

Una sola cosa non mi trova d’accordo con Piero, ma è un dettaglio. Non ricordo nessun esempio di resistenza non violenta a un autentico “regime totalitario spietato” che abbia avuto successo. Il totalitarismo è un fenomeno dai tratti abbastanza precisi, quindi la non violenza come forma di resistenza può avere effetto con altre forme di autoritarismo, ma non con quella. Credo sia perfino più verosimile che un regime totalitario si disfi da solo per implosione interna, piuttosto che per iniziative esterne non violente. Forse l’amico Piero vorrà intervenire su questo tema.

Data: 13.06.2013

Autore: Walter Venchiarutti

Oggetto: Commenti

La serata dedicata dal Caffè Filosofico al libro di Vittorio Dornetti e Piero Carelli ha saputo dar luogo nel dibattito che ne è seguito ad un interessante confronto di idee.

Mi ha particolarmente colpito il raffronto tra i principi “vitalistici” (la vita come valore supremo) e le considerazioni “giustificatorie” (il fine può legittimare i mezzi).

Il tema si è presentato ghiotto non solo per coloro che della parola, come i filosofi, sanno fare un’arte, ma anche per chi, dietro l’esame delle scelte etiche, cerca di ravvisare gli archetipi originari del comportamento umano.

Così non ho potuto fare a meno di scorgere l’eterno insolubile dilemma tra due precise concezioni del mondo tramandate dall’Oriente Indù: la visione Brāhmana e quella degli Kshatriya. Vale a dire la preminenza della contemplazione, per chi detiene l’autorità spirituale e intellettuale, in eterna collisione con i princìpi che i “guerrieri” esercitano attraverso l’azione della forza e il potere temporale.

Maya dagli induisti, samsāra dai buddisti, grande jihad guerra interiore per gli islamici, tutte le più antiche dottrine sono concordi nel considerare la possibile uscita dal gioco illusorio della trappola esistenziale, una meta raggiungibile solo attraverso il superamento del proprio punto di vista, inteso alla stregua di impedimento egoistico.

Non è affatto facile superare la logica manichea che vede nella demonizzazione dell’avversario il solo mezzo per far trionfare le proprie idee, naturalmente queste ultime ritenute giuste e quindi appannaggio degli unti dal Signore, del popolo eletto, della razza superiore o della casta di turno.

Anziché programmarne lo sterminio occorrerebbe cercare di capire le ragioni del “nemico”, il che non vuol dire giustificarle o condividerle. Spesso però questo atteggiamento viene frainteso alla stregua di un modo di fare vile e rinunciatario.

La storia è piena di poteri forti, ideologie intraprendenti e decisioniste i cui adepti dicevano di battersi per un mondo migliore e sono caduti, travolti nel bagno di sangue che avevano procurato. Da questo elenco non escluderei le economie di predazione: le democrazie occidentali, primarie fautrici del colonialismo e gli imperi del bene, gli ayatollah del produttivistico-consumista e dell’eterna crescita che finiranno per condurre il pianeta alla rovina.

Si creda o no l’insegnamento di Cristo, lo sconfitto per eccellenza, dopo due millenni, spesso a dispetto dei suoi stessi fautori, resta ancora l’unico punto fermo. Purtroppo si tratta di un percorso che per la maggioranza è improponibile.

Come si fa ad amare il prossimo, specialmente quando si tratta di un nemico, quando giornalmente non riusciamo a sopportare neppure gli amici?



Crema, 21.1.2012

Walter Venchiarutti

Data: 13.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Il senso di un'invettiva morale



Il genere letterario dell’invettiva morale si presta per sua natura ad equivoci. Ecco perché ritengo doveroso, dopo il confronto vivace del 9 gennaio al Caffè filosofico, chiarire, seppure in modo schematico, il mio personale “punto di vista”.

Non ho dogmi, “assoluti”, ma questo non mi esime dal “credere” in valori “forti”.

Nessun valore è più nobile di ogni singolo uomo: è questo è il mio “credo” di base. Si tratta di un valore forte, ma non assoluto: una regola, infatti, ammette sempre delle “eccezioni”.

Il problema (tutt’altro che agevole) è proprio questo: individuare le eccezioni che consentono “moralmente” il sacrificio di una persona.

Nella mia full immersion nel Risorgimento non ne ho trovato neppure una: non certo per la carneficina che si è consumata sotto l’egida di eserciti statuali nell’epica battaglia di Solferino (ben 28.000 caduti, tra morti e feriti, vale a dire “una teorica fila ininterrotta di corpi inerti o sofferenti lunga una cinquantina di chilometri”), ma nemmeno per l’“esiguo” numero di vittime provocate a Parigi per mano di alcuni terroristi.

Si dirà che non sono le singole “cause”, ma i “risultati complessivi” a “giustificare” i “costi umani”. È una logica, questa - la “logica dei risultati” - che mi rifiuto di seguire, come mi rifiuto di seguire la logica dei numeri e credere che alcune migliaia di morti siano, tutto sommato, un prezzo moralmente sostenibile: sono moralmente sostenibili, allora, secondo tale logica, i 650.000 morti – più alcune decine o forse centinaia di migliaia di vittime tra le file dei “nemici” – della Grande guerra per liberare Trento e Trieste?

Per me ogni singolo uomo vale infinitamente di più di qualsiasi pur nobile risultato.

È quando non si riconosce la dignità infinita di ogni singola persona (e quindi in primis il suo “diritto” alla vita) che si scivola nella cultura della morte. Accade quando l’individuo viene subordinato a una “Causa superiore” (lo Stato etico, la Razza, la Storia concepita alla Hegel e alla Marx…) e quindi sacrificato come tale sull’altare di qualche “dio”. Accade, in ultima analisi, ogni volta si pretende di "superare" il liberalismo: da qui il "totalitarismo" fascista, nazista, comunista...

Ecco perché elogio il liberalismo perché è proprio il liberalismo che riconosce i "diritti" di ogni singolo uomo.

Un conto, certo, è lo Stato totalitario e un conto la “nazione”, ma non vi è dubbio che una nazione, nella misura in cui diventa forte, è tentata dall’avventura coloniale. È accaduto alle prime grandi nazioni europee. È accaduto anche all’Italia che sotto il pressing del “nazionalismo” (un'altra dottrina che fa dell’uomo uno “strumento”) e in seguito alla svolta del “nazional-fascismo”, ha seminato una moltitudine di morti: almeno 30.000 tra gli Etiopi e 40.000 tra i ribelli libici. "Le nazioni - ripeto la citazione dello storico Paul Ginsborg (p. 15) - sono brutte bestie. Spesso si sono ben poco distinte per servigi resi all'umanità; in loro nome è stato compiuto ogni tipo di nefandezza".

Quali allora le eccezioni? Un’eccezione, di sicuro, è la legittima difesa. E un’eccezione, senza dubbio, è rappresentata dal caso - un caso da manuale - in cui la morte di un uomo consente di salvarne 100 (è qui che entra in gioco il criterio quantitativo). È il caso, ad esempio, di una dittatura sanguinaria. Pienamente giustificata, quindi, è l’opzione della violenza fatta propria dalla Resistenza, ma non la violenza “gratuita” e “sproporzionata” di cui si sono macchiati tanti partigiani non solo dopo il 25 aprile 1945, ma anche prima. La violenza va considerata solo come extrema ratio. In caso contrario, genera altra violenza e fa scorrere altro fiume di sangue: è la storia che lo dimostra.

Ognuno opera, assumendosi le proprie responsabilità, dentro le categorie culturali e le “passioni” del proprio tempo. Ieri come oggi. Ma è l’oggi che ci interessa di più perché è il presente il tempo delle nostre scelte. È questo il capitolo che prima o poi dovremo scrivere insieme. Chissà, forse scopriremo che anche noi abbiamo le nostre bandiere che grondano sangue, che anche noi, spesso e volentieri, facciamo dell’uomo – che è un “fine” – un “mezzo”.

So bene che i governi non si fondano sui “paternostri”, né sui pii desideri delle anime belle. So bene che la politica ha a che vedere con dei rapporti di forza e che l’economia ha una logica che non ha nulla a che fare con la logica dell’etica. So bene che declinare i valori è tremendamente difficile perché “duri” sono i vincoli che ci legano le mani.

Sono, tuttavia, convinto che siamo sempre noi, pur tra mille condizionamenti, a “fare la storia”, ognuno nel suo ambito. Non salveremo, certamente, il mondo, ma non gli daremmo un volto un po’ più umano se, da “esseri morali”, scegliessimo - rubo ancora la potente immagine di Antonino Caponnetto - di “porre la persona umana al centro dell’universo”?

Un contributo, il mio, alla riflessione sui costi umani delle nostre radici nazionali. Un saggio, di conseguenza, dal taglio etico, ma che non trascura di dare un’idea (grazie all’espediente del dialogo serrato con un interlocutore ideale) della “complessità” di una stagione a dir poco “eroica”.

Non so se io sia riuscito nell’intento, ma il confronto avviato dal Caffè filosofico è già incoraggiante. Un confronto che – chissà! – potrebbe ulteriormente arricchirsi nel Caffè virtuale.



Crema, 14 gennaio 2012

Piero Carelli

Data: 13.06.2013

Autore: Vittorio Dornetti

Oggetto: R: Il senso di un'invettiva morale

Ho avuto occasione di esprimere più di una volta, soprattutto in privato, il mio dissenso nei confronti del saggio di Piero Carelli che, ironia della sorte, è ospitato nello stesso volume in cui si trova il mio scritto. Mi sento dunque moralmente impegnato ad intervenire in una discussione di carattere pubblico, dato che me ne viene offerta l’occasione; è, prima di tutto, un’esigenza di correttezza, che, se non altro, mi preserva dall’accusa di ipocrisia.


Dal punto di vista storico il saggio di Carelli ha poco da dire, e basta la considerazione che mette Mazzini accanto al motto nazista “Got mit uns”, e che paragona lo spirito di libertà dei patrioti italiani ai crociati (assimilando, va da sé, le vittime degli uni e quelle degli altri). Davanti a questa o a obiezioni di questo tipo, Carelli risponde che il suo non è un saggio storico, bensì, “un’invettiva”, qualunque cosa si voglia intendere con ciò. Ma qui cominciano le ambiguità, perché Carelli (lo voglia o no) procede da storico e si serve della sua metodologia (ad esempio la bibliografia e le note).
L’autore comincia la sua trattazione con un paragrafo in cui ci ricorda per l’ennesima volta che la storia non è oggettiva, e che dipende largamente dalle scelte pregresse dell’autore. Non ci dice niente di nuovo, a parte la considerazione che da decenni almeno il Risorgimento italiano è stato privato dei tradizionali allori e si fa veramente fatica a vedere ancora nei “grandi “ della storia nazionale quell’alone di retorica, che egli continua a cogliere nel corso della conversazione col suo mite interlocutore. Alla prevedibilità di Carelli su può rispondere con l’altra, e cioè che se lo storico non può essere oggettivo deve almeno essere “onesto”, con una aggiunta un po’ meno banale: la storia, intesa come “scienza”, si è dotata di una serie di protocolli che dovrebbero garantire proprio “l’onestà” dello storico, e che dovrebbero permettere al lettore di verificare il suo percorso, e seguire (o meno) le sue conclusioni. Tali protocolli riguardano appunto la documentazione espressa nella bibliografia e nei rimandi fattuali, che debbono però essere autentici, o quanto meno godere di una interpretazione pertinente, accettabile, documentabile. Ora, a parte l’uso delle fonti che Carelli fa (non sempre condivisibile, come ad esempio la scelta di isolare la semplice frase dal contesto con il paradosso di far dire ad un autore, per esempio Villari, proprio il contrario di quello che sostiene nel coso di tutto il libro), non si capisce il significato (dal punto di vista storico, beninteso) dell’inserto “visionario”, in cui si sentono i morti di Solferino animarsi e maledire. Ai morti, com’è noto, si può far dire tutto quello che si vuole, compreso l’orgoglio di aver dato la loro vita alla patria e il disprezzo e il rancore verso chi ha tolto gloria alla loro morte e senso, magari, alla loro vita privandoli della gioia di aver offerto la loro esistenza per una causa grande. I morti non parlano, e non parla neppure l’interlocutore di Carelli, che si lascia tirare ovunque, non parla mai se non per bocca di Carelli stesso, e avanza obiezioni (implicite e sottintese) solo per farsele superare. A me ricorda tanto la tecnica dei predicatori gesuiti di cui mi ha parlato mia madre che li aveva sentiti da ragazza: uno impersona il bene, l’altro il male, e magari il male è anche affascinante ed arguto, ma tutti sanno che alla fine non la spunterà. Se il dialogo di Carelli è filosofico, si fa fatica a distinguerlo dal monologo.


Ma, si diceva, il saggio in questione non è storico, anche se”ha a che fare con la storia”, come (se non erro) l’autore ha dichiarato pubblicamente al “Caffè filosofico”. E’ un’invettiva, il che tornerebbe, se si considera il linguaggio fortemente emotivo, i titoli ad effetto, la deplorazione che coinvolge tutti (ma soprattutto i patrioti), la riaffermazione dei “primi principi”. Personalmente non sono convinto che l’invettiva è quello di cui abbiamo bisogno in questo momento, ma ovviamente è un’opinione personale. Tuttavia bisogna anche aggiungere che chi si sente autorizzato ad inveire, e soprattutto nei toni apocalittici e profetici che Carelli non si perita di usare, deve avere una conoscenza assoluta della morale e della storia, non “idee forti”, ma idee che si squadernano davanti agli occhi con la forza dell’evidenza. Naturalmente è lecito possedere, ed esprimere, una simile convinzione, ma essa, e soprattutto il metodo di cui ci si serve, debbono essere chiari e non ammantarsi di qualcosa d’altro: nella fattispecie di un saggio “interlocutorio” che cerca il consenso attraversi dati storici e persone concrete, salvo poi evitare un confronto proprio su questi stessi elementi (fra parentesi, a proposito di dati, nella sua contabilità cadaverica Carelli trascura inspiegabilmente i morti, tutti poveracci che passavano per caso, soprattutto donne, provocati dalla sbirraglia austriaca durante lo sciopero del fumo che egli pone come unica alternativa riconoscibile a quel Risorgimento che è stato – mal – fatto).


Infine, la cosa che personalmente mi ha più irritato del lavoro di Carelli. Il porre come “chiave di lettura” del suo saggio una serie di principi primi, di carattere morale, come se il rispetto della vita umana, l’obbligo morale di scegliere la via meno sanguinosa fosse un valore di cui lui solo ha il possesso e la chiave, mentre tutti quanti hanno creduto, e credono, nel valore del Risorgimento così come si è storicamente prodotto non siano in grado di vedere e sentire quanto dolore e quanto sangue abbia comportato (e senza, naturalmente, nascondersi quanto è stato fatto in modo parziale, o in maniera ingiusta). E ancora, vale la pena di ricordare che l’immagine oleografica dei padri della patria è stata messa in crisi da tempo, e non solo dalla “storiografia revisionista”, ma da persone che sono disposte però a concedere, con generosità e riconoscenza , il merito a chi se lo è conquistato, anche a prezzo di quegli errori “che sono retaggio della natura umana” (per parafrasare – a memoria – il grande bardo). Perché il punto sta proprio qui: non si tratta di giustificare, né di abbattere idoli che ci hanno reso irritati, né smentire “parole che i retori ci hanno reso nauseose”, ma di riconoscere la drammaticità, e anche la tragicità della storia, il sapere che l’uomo migliore progetta il bene, e lo vuole intensamente, e spende magari tutta la sua vita, per realizzare quel progetto, ma si trova di fronte ad una opacità della storia con la quale deve fare i conti, e che lo espone a ripensamenti, a fallimenti, a ridimensionamenti. Ma molti di quei patrioti di cui Carelli scorge con affanno solo i limiti (certo, dichiarandone i meriti nelle pagine conclusive dopo aver insistito prima solo sugli errori e le sofferenze che hanno provocato, ed è un’altra forma di ambiguità), si sono rivelati disposti a rischiare molto di se stessi, forse anche la necessità di versare sangue, forse anche la prospettiva di un fallimento e di una vita spesa invano.

Data: 13.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Un confronto che arricchisce

Ognuno di noi ha i suoi attrezzi di lavoro, i suoi schemi culturali, le sue stesse idiosincrasie ed è così che legge un testo. E non può essere altrimenti: l’uomo, tanto più se adulto, tanto più se studioso, non è una tabula rasa, per cui ogni lettura è sempre una sorta di “creazione”. Accade anche che si legga il contrario di quello che si trova, ma del tutto in buona fede, semplicemente sulla base delle proprie aspettative.

Ognuno ha il suo “punto di vista” che, in quanto tale, non può che essere parziale. Il confronto, quindi, tra “punti di vista” non può che allargare l’orizzonte di tutti. È quanto è accaduto nel nostro Caffè virtuale. Ringrazio, quindi, gli amici (un antropologo, un filosofo, uno storico e uno psicoanalista) che hanno raccolto la mia provocazione, ognuno secondo il suo stile, la sua sensibilità, la sua passione e che mi hanno stimolato a chiarire ulteriormente il mio “punto di vista”.

Conosco troppo poco la saggezza orientale (una lacuna che sto lentamente colmando) per riconoscermi in uno dei suoi filoni culturali. Le mie radici sono del tutto occidentali. I pensatori che più mi hanno formato sono stati Socrate, Pascal, Locke, Kant, Kierkegaard (tutti, si noti, antimetafisici) e, più di qualsiasi altro, Gesù Cristo (“lo sconfitto per eccellenza” che, tuttavia, “dopo due millenni”, resta ancora un “punto fermo”).

Non mi sono ispirato direttamente a Popper, ma devo confessare che la lettura della sua opera La società aperta e i suoi nemici è stata per me salutare perché mi ha aiutato a riscoprire il liberalismo contro ogni pretesa di “superare” il primato dell’individuo in nome di presunti Valori superiori. Non è un caso che alla fine del mio saggio suggerisca proprio di ritornare, dopo le ubriacature di destra e di sinistra, a quella dottrina che pone proprio al centro i diritti di ogni uomo.

Parlando della resistenza non violenta a proposito di regimi spietati, alludevo alla straordinaria esperienza di Solidarnosc in Polonia e a numerose rivoluzioni cosiddette “colorate” che sono scoppiate nell’ex impero sovietico (si veda Antonino Drago, Le rivoluzioni non violente dell’ultimo secolo, Nuova Cultura, Roma 2010).

Non c’è un modello di uomo originariamente buono. Già Spinoza nel Seicento metteva in guardia da coloro che homines […], non ut sunt, sed, ut eosdem esse vellent, concipiunt (Trattato politico, in Baruch Spinoza, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2010, pp. 1630-1631). L’uomo è come è e, come tale, è abitato dalla violenza. Concordo: la violenza fa “profondamente parte” della sua “struttura”. Gli uomini, tuttavia, grazie alla ragione, hanno la possibilità e la responsabilità di frenare questa violenza. Anche smascherando quelle dottrine aberranti che generano esse stesse violenza. È quanto mi sono sforzato di fare nella mia “fugace passeggiata” risorgimentale.

Non ho “principi primi”. Non ho “idee che si squadernano davanti agli occhi con la forza dell’evidenza”. Ho semplicemente “credenze” in qualche valore. Sono le carte che ho giocato e sono le carte che ho ritenuto opportuno, per rispetto del lettore (in sintonia con una collaudata tradizione tra coloro che trattano di questioni filosofiche), scoprire prima di intraprendere il mio viaggio. Del resto, non sono le credenze il motore di tante opere umane, incluse le opere scritte? Non è stata una credenza forte che ha ispirato il libro citato di Popper?

So bene che “L’immagine oleografica dei padri della patria è stata messa in crisi da tempo, e non solo dalla ‘storiografia revisionista’”: i trenta libri che ho letto, anche se un’inezia nel mare magnum della letteratura sul Risorgimento, mi hanno offerto un quadro sufficiente sullo status della ricerca storica in questione. Non a caso ho scritto in premessa che non mi sarei schierato a fianco dei denigratori degli eroi risorgimentali e non a caso ho preso le distanze da certi studi astiosi di storici o pseudo-storici “meridionalisti”.

Non ho infangato i tanti patrioti che “si sono rivelati disposti a rischiare molto di se stessi, forse anche la necessità di versare sangue”. Ho espresso, al contrario, “ammirazione per gli eroi” e addirittura commozione di fronte a una lettera di un patriota-terrorista. Ho stigmatizzato i mandanti, non le vittime! Isolare dei passi dal contesto può giocare brutti scherzi!

Non ho costruito nel mio monologo un interlocutore mite, debole, giusto per demolirlo meglio. Non ho fatto altro che mettergli in bocca le obiezioni classiche (di cui sono zeppi i manuali di etica) e quelle che ho raccolto da amici del Caffè filosofico, alcune delle quali poi “esplose” nel vivace confronto del 9 gennaio. Tutto qui. Altro che obiezioni edulcorate! Avrei dovuto, forse, scrivere un monologo… a due mani?

Non ho tralasciato per nulla i morti causati dai soldati austriaci durante lo sciopero della fame a Milano: bastava dare un’occhiata a una nota per trovarli (perfino un bambino di quattro anni).

Ho riportato scrupolosamente le “citazioni isolate” degli stessi storici seriosi. Per il mio intento questo bastava (sono gli storici che hanno il compito di scavare, ad esempio, nei cento volumi che raccolgono gli scritti di Mazzini). Non ho trovato, poi, alcuna citazione in contrasto col contesto: se si legge troppo in fretta, magari evitando le note, si rischia di prendere degli abbagli!

Un pamphlet, il mio. Perché mai avrei dovuto rinunciare all’ironia? Forse che perde di valore quel capolavoro che è il Traité sur la tolérance di Voltaire (che consiglio di leggere in francese) - una vera e propria invettiva morale a sfondo storico - perché scritto con l’arma del sarcasmo e privo dei rigorosi “protocolli” degli storici di professione? Non è poi un’ironia sottile che permea un altro capolavoro - un’altra invettiva morale - l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam? Non si può scambiare un genere per un altro!

Un saggio “leggero”, il mio, che ho curato meticolosamente per mesi col preciso scopo di catturare il lettore non addetto ai lavori, di inchiodarlo pagina dopo pagina, anche ricorrendo ad espedienti retorici ad hoc, convinto come sono che un testo, se non è costruito per essere “venduto”, è destinato ad essere abbandonato quanto prima dal lettore medio. Un saggio che ho studiato nei minimi dettagli anche al fine di prevenire (pensavo a un lettore attento) possibili equivoci.

Un “libello”, il mio, ma non ho dubbi di avere svolto un lavoro utile. Quanti libri in circolazione prestano l’attenzione che ho dedicato io ai “costi umani” del Risorgimento (anche nella cerchia dei nostri “nemici”, anche in quella dei nostri “amici”), a certe idee folli del suo profeta, a certi comportamenti cinici di uno dei suoi personaggi più illustri? Quanti storici paludati sono riusciti a sintetizzare in così poche cartelle la “complessità” di quella stagione (anche in aspetti per lo più ignorati da storici cosiddetti “laici”)?

Non mi appassiona più di tanto il Risorgimento. Mi interessano molto di più i nipotini di Mazzini che, pur con un linguaggio rinnovato, continuano a predicare il fondamentalismo mazziniano: se ci guardiamo bene intorno, li troviamo e non solo nel mondo islamico, ma anche in casa nostra. Mi interessano molto di più i nipotini di Cavour per i quali, ancora oggi, la logica dei risultati vale immensamente di più dei mezzi. Ciò che mi interessa è che non si ripetano gli errori di quel periodo “glorioso” e che sopravviva la sua preziosa eredità (magari la versione di Giuseppe Ferrari della laicità dello Stato).

I morti volontari, no, non parlano, ma i morti ammazzati, sì. Parlano, gridano, urlano. E sono una miriade: quasi un milione nel processo di unificazione italiana (compresa l’annessione del Trentino Alto Adige), ben cento milioni nel Novecento in tutto il mondo e almeno alcune centinaia di migliaia agli albori del XXI secolo (si legga Matthew White, Il libro nero dell’umanità, Ponte alle Grazie, Milano 2011). Tutti dovuti alla “opacità della storia”?

Ognuno vive nel suo mondo e coltiva il suo orticello (ed è più che legittimo), ma io sono indignato e con me milioni, miliardi di persone di fronte allo scempio che si fa ancora oggi della dignità dell’uomo, del suo valore che io mi ostino a dire “infinito” (quale confine potrebbe delimitarlo?). Non abbiamo, allora, bisogno di invettive morali in questo momento? Non abbiamo bisogno di nuovi Erasmo da Rotterdam e nuovi Voltaire con i loro j’accuse? Io ritengo di sì. Ci servirebbe - eccome! - un nuovo illuminismo. Un neo-illuminismo maturo, però, senza che nessuno sventoli la bandiera della “Ragione”, senza che nessuno pretenda di vedere dispiegarsi nella storia la mano invisibile della… List der Vernunft di hegeliana memoria: il filosofo altro non è che an Under-Labourer in clearing Ground a little, and removing some of the Rubbish, that lies in the way to knowledge (John Locke, Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, Milano 2004, p. 14). Un neo-illuminismo rispettoso della fede: la fede è “apertura al Mistero”, non “possesso” di una Verità da imporre magari con la violenza. Un neo-illuminismo consapevole della “durezza” del tempo presente, ma mai rassegnato al “così va il mondo”, al ricatto del “finanzcapitalismo” (rubo l’espressione a Luciano Gallino). Un neo-illuminismo non distruttivo, ma costruttivo che ponga con forza la “questione morale” e, in primis, la centralità dell’uomo, di ogni uomo.

Mi piace chiudere queste annotazioni con le parole di un gigante del pensiero del Seicento: Men’s Principles, Notions, and Relishes are so different, that it is hard to find a Book which pleases or displeases all Men.

Grazie ancora e che il confronto continui!

Crema, 4 febbraio 2012

Piero Carelli

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